Cultura

Aida, la voglia di futuro

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FOTOGRAFIA

Aida, la voglia di futuro

Artista. Aida Muluneh, «99 Series», 2013, ricerca ispirata al XX Canto dell’«Inferno» di Dante, girone  degli indovini. Con il volto girato all’indietro e le lacrime che scendono sulla schiena è la metafora di chi non sa leggere nei cambiamenti e si condanna a vivere nel passato
Artista. Aida Muluneh, «99 Series», 2013, ricerca ispirata al XX Canto dell’«Inferno» di Dante, girone degli indovini. Con il volto girato all’indietro e le lacrime che scendono sulla schiena è la metafora di chi non sa leggere nei cambiamenti e si condanna a vivere nel passato

Se la regina di Saba, fondatrice leggendaria dell’Etiopia, cercasse un’erede all’altezza della sua fama, una donna in grado di rappresentare oggi le tensioni di un Paese nevralgico negli equilibri dell’Africa e della stessa Europa, non dovrebbe far altro che raggiungere Addis Abeba, avvicinarsi al quartiere di Sidist Kilo, attraversare la piazza Yekatit 12, dedicata alle vittime della rappresaglia per l’attentato al Generale Graziani durante l’occupazione fascista, quindi passare davanti all’Università e infine salire le scale dell’International Leadership Building Institute. E qui, gustandosi una delle nove tazze di caffè quotidiane previste dalla tradizione e religiosamente divise in tre assaggi, omaggio alla Trinità, farebbe la conoscenza di Aida Muluneh, 42 anni, straordinaria fotografa, premio ai Rencontres africaines de la photographie di Bamako e fondatrice di una delle organizzazioni più vitali sulla scena artistica etiope, il Desta, Developing and Educating Society Through Art, dove desta in lingua amarica significa “felicità”. E tutto parte da qui.

Un’artista come Aida, con quel nome da principessa che porta in sé la memoria tragica del suo Paese, ha cominciato a essere felice quando è riuscita a raccontare un’altra storia, diversa dalle cronache europee, perché rivolta al futuro. Una storia, anzi molte storie che dal 15 al 20 dicembre animeranno l’Addis Foto Fest (www.addisfotofest.com), ideato sei anni fa dalla stessa Muluneh e oggi rassegna di riferimento. A sorpresa uno dei racconti più intimi al destino delle nuove generazioni è stato scritto insieme a un’azienda italiana leader del caffè, la Bristot di Belluno, che in Etiopia acquista la sua migliore arabica - selezionata dall’organizzazione Nkg (www.hrnstiftung.org), attenta allo sviluppo sociale ed economico delle comunità di coltivatori di caffè – e che in Etiopia, in una logica di restituzione, ha voluto sostenere il progetto Tales on (www.taleson.org), ideato con molta sensibilità da Marco Milan, direttore artistico e designer. Un progetto che “nel 250° anniversario dell’ultimo numero de «Il Caffè» di Pietro e Alessandro Verri, uscito nel 1766, rinnova il connubio vitalissimo tra una bevanda, un luogo d’incontro e quanti hanno una visione moderna e democratica della società”, spiega il curatore. I nuovi “illuministi” del Corno d’Africa? Sono cinque giovani fotografe etiopi, Haymanot Honelegn Assefa, Hilina Mekonen Tesfaw, Luna Solomon, Maheder Haileselassie Tadese e Netsanet Fekadu, scelte da Marco Milan e Aida Muluneh con un doppio sguardo che avvicina le distanze. E “la distanza” tra culture, generazioni, uomo e donna, città e campagna è il tema dei cinque portfolio di trenta immagini l’uno, e cinque videointerviste che saranno esposti al festival e in parallelo a Venezia, al Fondaco Sant’Angelo dal 15 dicembre all’8 gennaio, quindi raccolti in un catalogo importante.

Accanto a “felicità”, non a caso, la parola che segna la vita di Aida Muluneh e la rende esemplare è “distanza”. Distanza come separazione ed emancipazione. «A darmi l’esempio è stata mia nonna, che a quattordici anni, sposa bambina, fugge dal suo villaggio a dieci ore di cammino da Lalibela, nel nord dell’Etiopia, e da sola raggiunge la capitale», ricorda Aida. Quarant’anni dopo, nel 1979, durante la dittatura di Menghistu, un’altra fuga, in Yemen. «Accanto a mia nonna questa volta c’ero io, e insieme abbiamo raggiunto mia madre che era stata arrestata, torturata e poi miracolosamente lasciata libera». Un altro passaggio a Cipro, poi il Canada con lo status di rifugiate, e infine madre, figlia e nipote raggiungono Washington, dove Aida studia cinema ed entra come fotogiornalista nello staff del «Washington Post», «un’esperienza fondamentale per imparare a raccontare una storia, analizzando i fatti e i personaggi».

Nel 2007 Aida è in Etiopia, un lungo reportage, «e finalmente ho ritrovato le radici, ho lasciato l’America, un posto sicuro, una famiglia e sono tornata nella mia vera casa». Altri tre anni di lavoro ed esce il volume Ethiopia. Past/Forward.

«Avevo bisogno di un’immagine mia, nostra, diversa da quella dei fotografi occidentali, che da cent’anni guardavano all’Africa come a un Paese selvaggio, nudo e disperato. A me invece interessava il futuro, avanti, forward». Strano a dirsi, ma l’ispirazione per creare un linguaggio originale viene dalla storia della letteratura italiana, Dante. Nel 2014 Simon Njami, scrittore camerunense, critico d’arte e curatore dei Rencontres di Bamako, invita Aida Muluneh a realizzare un lavoro sulla Divina Commedia, The Divine Comedy. Heaven, Purgatory and Hell rivisited by Contemporary African Artists. Aida sceglie il XX Canto dell’Inferno, quello degli indovini, la testa rovesciata indietro e le lacrime che scendono sulla schiena, «perché la colpa più grave è quella di non saper leggere i cambiamenti e costringere un Paese a vivere nel passato». Un passato che crede anche alla purezza etnica, «e basterebbe la mia storia, io che vanto nella mia famiglia origini tigrine, oromo e amhara, io che sono cristiana ortodossa con un bisnonno musulmano, per capire quanto quest’atteggiamento sia crudele e distante dalla realtà».

Per guardare avanti, «per essere noi l’archivio dei prossimi cinquant’anni», Aida ha creato Desta for Africa, un centro di studio per lo sviluppo della società attraverso l’arte e la fotografia, dove la fotografia «non è la singola immagine ma un sistema di comunicazione». Nel 2010 nasce il festival. Nel 2012 un figlio. Ancora uno sforzo e un giorno nascerà una casa editrice. Per il nome Aida ha pensato a una frase di sua nonna: «Il mondo è nove, perché non può essere dieci, perché non può essere completo». La distanza dalla perfezione è la più umana e universale. Eppure, un racconto dopo l’altro non è detto che Aida, soprano per natura, non riesca ad annullare la distanza più grande, quella che ci separa dai nostri sogni.

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