Cultura

Danza macabra vittoriana

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JOHN GALSWORTHY (1867-1933)

Danza macabra vittoriana

Ritratto. John Galsworthy secondo R. H. Sauter
Ritratto. John Galsworthy secondo R. H. Sauter

Una festa di fidanzamento in una lussuosa abitazione londinese, tra mobili e arazzi, tende eleganti e decine di lampadari pieni di candele. Nell’ampia sala uno spaccato dell’élite vittoriana di fine secolo (siamo esattamente nel 1886), una sorta di rituale classista con tutti i suoi stereotipi: discorsi pacati di politica, argomenti commerciali, considerazioni sui più fruttuosi investimenti nelle filiali orientali dell’Impero, il tutto frammisto a pettegolezzi matrimoniali, amabili rimbrotti su chi non rispetta del tutto il galateo, anticipazioni di amori supposti o appena dichiarati. Ecco una fastosa scena di fine ’800 in cui appaiono uomini e donne dall’abbigliamento irreprensibile: sono i Forsyte, un’ampia famiglia danarosa che si è ramificata nei palazzi della City e negli studi legali “associati”, nonché nei consigli di amministrazione di varie Compagnie esposte agli scenari delle Indie.

I Forsyte, una vera casta, sono così descritti da John Galsworthy, uno dei maggiori scrittori vittoriani, ne Il possidente, primo romanzo della trilogia La Saga dei Forsyte che gli ha dato la fama ai primi del secolo scorso: «Una folla ben vestita che rappresentava famiglie di avvocati, di dottori, di uomini di finanza, insomma tutto ciò che eccelleva nelle numerose carriere della grande borghesia», gente che sapeva riconoscersi, annusarsi, e che era abituata a «vedere solo quelli della propria carne e del proprio sangue». A cominciare dal capostipite, il vecchio Jolyon: una sorta di contenitore genetico delle qualità e delle caratteristiche della sua stirpe , «rappresentante completo della sua famiglia, della sua classe, dei suoi dogmi; personificazione dell’ordine, della moderazione e dello spirito di proprietà». A lui spetta il compito di testimoniare e di assistere alla celebrazione della ricchezza come filosofia “morale”, perché di fronte al principio dell’auto-conservazione vige solo la regola dell’opportunismo (che coincide con quella dell’opportunità commerciale).

Il possidente (1906) è un romanzo complesso, che inanella storie e vicende spalmate nell’arco di due generazioni, dal vecchio Jolyon al figlio, che si chiama come lui, unico nella famiglia ad avere scelto di vivere da artista, seppur sotto la copertura finanziaria della famiglia. Intorno a loro Galsworthy, che ha una straordinaria capacità descrittiva dei tipi e dei caratteri degna della ritrattistica di Gainsborough, colloca una pletora di parenti (con un delizioso campionario di zie intriganti, diafane e disincantate), tra cui emerge, centrale, la figura di Soames, figlio di James che è fratello di Jolyon senior. La storia narra infatti dell’amore di Soames per la bellissima Irene, sposata dopo innumerevoli tentativi andati a vuoto. Una sposa tanto vagheggiata quanto mai raggiunta nell’intimità della vita coniugale. Irene è un frutto proibito che Soames crede di aver comprato, dato che i Forsyte sono abituati a comprare ogni cosa. Ma che palpita di vita sua (figlia di un insegnante, ha la sola “colpa” di non aver avuto una dote), e la cui vulnerabilità non tiene minimamente conto dello “scudo” dei Forsyte. Descritta con vera grazia da Galsworthy (si pensi solo alla scena in cui la donna è esposta alla magica luce di un paralume rosa, che irraggia toni sfumati sui suoi capelli ambrati e sulla sua pelle bianca, «in suggestivo contrasto con gli occhi neri»), Irene finisce per innamorarsi del giovane architetto Bosinney, proprio lo strumento scelto da Soames per celebrare il suo trionfo economico attraverso la costruzione di una fastosa casa di campagna a Robin Hill, alla periferia di una Londra in veloce espansione.

Irene in quella casa non ci vorrà andare, decidendo di fuggire con l’amante, e la sconfitta di Soames sarà bruciante, fino ad attraversare tutta la grande famiglia dei Forsyte, che in modi diversi, tra indulgenze e sarcasmi, filtreranno il disonore di un abbandono e copriranno il marito beffato, sempre attenti a non essere contaminati dal pensiero della perdita, qualunque essa sia, di un diritto di proprietà. Eppure la vendetta non tarderà ad arrivare, e Soames riuscirà alla fine a portare Bosinney in tribunale per ragioni contrattuali (ha sforato nel budget di Robin Hill) e a rovinarlo finanziariamente. L’odiato rivale morirà investito da un omnibus nella terrificante nebbia londinese di fine secolo XIX, e la povera Irene, priva di mezzi di sostentamento, tornerà dal marito. Solo momentaneamente, però, e il lettore ne saprà di più leggendo il romanzo seguente della Trilogia, In tribunale, che Elliot pubblicherà il 17 novembre.

Ma quel che conta, nella lettura de Il possidente, è la descrizione d’ambiente, straordinaria nella sua perfezione (Galsworthy ha vinto il Nobel nel 1932). Nella Saga, infatti, troviamo una tipologia urbana degna di Dickens (e poi di Woolf), in cui si intrecciano le peregrinazioni dei personaggi. La città è così viva da sembrare costruita intorno a noi, anche se — e qui sta la forza critica del testo — la «plebaglia» (la gente comune, come la chiamano i Forsyte) è del tutto assente.

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