Cultura

Il gusto del raccontare

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ANDREA MOLESINI

Il gusto del raccontare

Nel passaggio da Sellerio, con cui ha pubblicato tre romanzi raffinati e di ambientazione storica, a un grande editore come Rizzoli con La solitudine dell’assassino, Andrea Molesini sviluppa una personale sfida con la lingua romanzesca, anche esponendosi ad alcuni rischi inevitabili (un editore, nel romanzo stesso, dice: «il cuore di tutto è nella scrittura, è lì che pulsa il mondo»). Nella Solitudine dell’assassino ritroviamo il gusto del raccontare, la sapienza ritrattistica, l’equilibrio tra grande Storia e storia di un’anima, e poi uno stile pieno, scandito su molti registri, al tempo stesso colto e popolare, fatto di buone letture e di interferenze della cultura di massa o perfino della canzone d’autore. Al lettore lascio indovinare la probabile origine pop di un lirismo d’effetto che si condensa in espressioni come «il suo sorriso – uno sciame d’api – arrivava dappertutto», o «il suo seno era uno schiaffo del vento d’aprile», o anche l’uso insistito di «bambino» come aggettivo(una «avidità bambina») e la notte, fatalmente «tentacolare». Molesini, che è traduttore, comparatista e scrittore per ragazzi, non rinuncia a espressioni di soda icasticità (il secondino parla «un italiano lardellato di napoletano») né a similitudini anche apparentemente in po’ incongrue, e lievemente stranianti: «Immaginarla fuori di lì era come… vedere John Wayne che nel bel mezzo di un’avventura scambia un winchester per un badile». D’altra parte la lingua di un romanzo si arricchisce degli umori e idiomi più diversi, e anche perciò il romanzo, pur essendo un genere mutante, è più o meno lo stesso dal ’700, almeno per il lettore comune: racconta una storia nel miglior modo possibile per farcela vivere con la massima intensità, come dice Xavier Cercas nel Punto cieco. La solitudine dell’assassino fa venire in mente il parere di un illustre connazionale di Cercas a proposito del romanzo, la cui essenza risiederebbe non nella trama e nemmeno nei personaggi ma nella «atmosfera»( Ortega y Gasset, 1925). Qui fin dalla prima pagina siamo immessi dentro un carcere, in una atmosfera claustrofobica, dove l’unica alternativa è tra una libertà “devastante” e una reclusione umiliante e tormentosa. L’autore, estraneo alla moda dell’autofiction,e attratto proprio dall’intrigo, intende competere su questo terreno con la agguerrita fiction TV e sembra inzeppare il libro di “romanzesco”: un bibliotecario condannato all’ergastolo, Paolo Malaguti, esce dopo vent’anni - ne ha ottantuno - e chiama un traduttore di Rilke e Shakespeare, Luca Rainer, figlio di una donna che era stata il suo avvocato d’ufficio, per dettargli la propria storia, con il patrocinio della direttrice del carcere (la «Vecchia blu»). Di lì si snoda una vicenda complicata, un po’ noir e romanzo psicologico, un po’ Simenon, un po’ il Maurensig della Variante di Lüneburg, in cui ci imbattiamo nell’occupazione nazista (con torture ed efferatezze), nell’ombra sinistra dell’Olocausto, nell’amore romantico (per una ebrea), nel conflitto lacerante di coscienza, nel trauma dell’8 settembre, in perfide ricattatrici, in personaggi con il viso sfigurato che sembrano usciti da un Batman gotico, etc. L’autore maneggia benissimo i vari elementi del puzzle, sapendo di essere solo un “traduttore”(dell’interiorità, come dice Proust nell’epigrafe), anche se qualche volta rischia di restarne sopraffatto. Il personaggio dell’assassino, non privo di un fascino tenebroso, diventa via via insopportabile: antifascista ma imbevuto di niccianesimo aristocratico («non sono fatto per la moltitudine»), “patriotticamente” resistente (contro i repubblichini di Salò) ma altezzoso e sprezzante, intellettuale sofisticato, ma incline a sfornare aforismi pseudoprofondi e pieno di boria per il solo fatto che lui avrebbe varcato il limite(«è una cosa strabiliante uccidere»!), al contrario dei mediocri… Mentre l’irrisolto, esasperante, incerto Rainer («mi ero sempre lasciato vivere»), viene giustamente preso in giro dalla donna che gestisce una taverna al porto, la sanguigna e sensuale Renna. Ma la verità morale che innerva queste pagine è pronunciata dalla madre di Rainer: «Ma che cos’è il tradimento? Io tradisco me stessa ogni giorno… si tradisce un amico, un amante, un marito, una figlia, una figlio, ma cosa vuol dire?... perché si passa la vita a tradire?» Il merito di Molesini consiste nell’aver saputo dare una veste narrativa (credibile) a una verità del genere, sciogliendola in una storia un po’ carica ma capace di interagire con la nostra interrogazione morale.

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