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L’etica della vulnerabilità

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FILOSOFIA D’OGGI / A COLLOQUIO CON CATRIONA MACKENZIE

L’etica della vulnerabilità

Approccio relazionale. Catriona Mackenzie
Approccio relazionale. Catriona Mackenzie

Se ci pensate, l’umanità di Achille sta nel suo tallone: è la sua vulnerabilità. L’umanità può essere ferita e può essere offesa. Ed è sotto queste due descrizioni che i grandi sistemi filosofici di etica e di politica hanno concettualizzato l’umanità. Da una parte, l’utilitarismo caratterizza l’umanità in relazione alla capacità di soffrire, insistendo sulla somiglianza tra gli esseri umani e gli animali non umani; dall’altra, l’etica dell’autonomia, che definisce l’umanità nei termini libertà e ragione, e intende l’offesa all’umanità come un danno radicale, che si infligge all’altro quando si compromette la sua capacità di scegliere o quando gli si negano opportunità reali di scelta. Quale che sia la caratterizzazione dell’umanità, è certo che la vulnerabilità è un concetto filosofico fondamentale, indispensabile per comprendere la condizione umana.

Negli ultimi anni, questo concetto ha acquisito una centralità che non aveva mai avuto nell’etica analitica. Probabilmente, questa nuova fase dell’etica analitica si può datare con la pubblicazione di Protecting the Vulnerable: a Re-Analysis of our Social Responsibility (University of Chicago, 1985) di Robert T. Goodin. Goodin sostiene che l’etica comune è colpevolmente arroccata sulle relazioni di prossimità e perciò rende invisibili i soggetti più vulnerabili, solo perché sono più distanti, trascurando le responsabilità sociali fondamentali. È un errore pensare che l’obbligo morale di prendersi cura dei propri figli abbia la priorità oppure abbia un fondamento più profondo dell’obbligo di proteggere i bambini di Aleppo, soggetti vulnerabili ai quali non ci lega nessun legame parentale o contrattuale.

Ciò sembra contraddire una certa fondazione dell’obbligo morale che si basa sull’idea che tutti gli obblighi morali genuini sono il risultato di contratto sociale ideale tra agenti autonomi, liberi e eguali. Perciò l’etica della vulnerabilità è talvolta proposta come un’alternativa all’etica dell’autonomia, su cui si fondano gli obblighi di tipo analogo a quelli contrattuali, quelli che si contraggono quando si stipula un contratto. Catriona Mackenzie ha dimostrato che questa contrapposizione è frutto di una semplificazione fuorviante. Anzi, è proprio attraverso il concetto di vulnerabilità che molte differenze tra i due grandi sistemi filosofici moderni, quello utilitarista e quello kantiano, risultano alla fine meno importanti. Mackenzie è docente di filosofia e direttrice del Research Centre for Agency, Values and Ethics, a Macquarie University, in Australia. Ha scritto numerosi saggi sulla relazione tra vulnerabilità e autonomia; e ha curato due volumi che hanno dato un’impostazione nuova a questi temi: Vulnerability: New Essays in Ethics and Feminist Philosophy (con R. Dodds, Oxford University Press, 2014), e Relational Autonomy: Feminist Perspectives on Autonomy, Agency and the Social Self (con N. Stoljar, Oxford University Press, 2000).

«La vulnerabilità è una caratteristica inerente alla condizione umana, che dipende dall’essere incarnati, dalla socialità, dalla finitezza, dalla mortalità e dalla suscettibilità alla sofferenza. L’etica della vulnerabilità presta attenzione al significato morale di queste caratteristiche della condizione umana. La nostra umanità e la dipendenza reciproca fonda l’obbligo di rimediare alla vulnerabilità e di rispondere ai bisogni degli altri, quando abbiamo il potere di farlo. Insieme alla nozione di vulnerabilità come inerente e universale, comunque, un’etica della vulnerabilità deve anche rendere conto del fatto che la vulnerabilità è sensibile al contesto e molte altre sorgenti di vulnerabilità dipendono dalla situazione e sono dovuti a fattori contingenti, sociali, ambientali, economici e politici, a volte ingiusti. Questi fattori situazionali interagiscono con le sorgenti di vulnerabilità in modi complessi. Per esempio, lo stato di salute di un individuo, sebbene sia in parte dipendente dal corredo genetico, è anche dipendente da fattori situazionali, come lo status socio-economico o il tipo di lavoro che questa persona fa o l’ambiente in cui lavora. Tutti siamo vulnerabili ai disastri naturali, terremoti, cicloni, valanghe, alluvioni. Tuttavia queste catastrofi spesso creano danni maggiori a persone che appartengono a comunità povere che hanno abitazioni meno adeguate o infrastrutture sociali carenti. Quindi, anche se chiunque sia esposto ad una catastrofe naturale è perciò stesso vulnerabile, la vulnerabilità può essere gestita relativamente bene nei contesti in cui il governo e le organizzazioni non governative provvedono prontamente all’assistenza. Invece, nei contesti in cui non c’è assistenza sufficiente, le persone hanno difficoltà a trovare rifugio e quindi sono maggiormente vulnerabili; è questo il caso delle persone malate. Un’etica della vulnerabilità è sensibile alle complesse interazioni tra le sorgenti contingenti della vulnerabilità e la vulnerabilità inerente alla condizione umana. Perciò può aiutare a spiegare gli effetti complessi dell’ingiustizia sociale, che rende particolarmente vulnerabili certi soggetti e gruppi sociali. Spiega anche perché abbiamo obblighi speciali verso questi soggetti e il dovere di giustizia di rimediare almeno quelle vulnerabilità che emergono da fattori sociali, economici, ambientali o politici e che possono essere modificati». Quindi l’etica della vulnerabilità non è solo uno strumento di analisi, ma anche un potente strumento di riforma sociale che affianca i più tradizionali modi di rivendicazione e di lotta politica, fondati sui concetti di libertà e eguaglianza individuale.

Per Mackenzie il concetto di autonomia è relazionale e perciò anche complementare a quello di vulnerabilità. Mackenzie si ispira a Mary Wollstonecraft, una filosofa visionaria, autrice del famoso saggio Vindication of the Rights of Woman del 1787 (I diritti delle donne, Roma, 2008).«Al centro del suo lavoro c’è la convinzione che la virtù morale richieda autonomia, cioè autogoverno razionale e emozionale. Wollstonecraft ritiene che questo sia possibile solo nel contesto di libertà civile, politica e sociale ed eguaglianza. La sua prospettiva sull’auto-governo è profondamente relazionale e il suo lavoro anticipa le preoccupazioni delle femministe contemporanee che teorizzano l’autonomia in termini di relazione. Infatti, Wollstonecraft rifiuta il concetto individualista di autonomia e pensa che l’autonomia sia non solo coerente con i legami affettivi e le relazioni di dipendenza, ma che possa essere sviluppata e sostenuta attraverso tali legami. Wollstonecraft comprendeva che la capacità per l’autonomia è strutturata dalle relazionali sociali e personali. Una persona è capace di auto-governo solo in un contesto in cui le relazioni sociali, le norme sociali e i costumi prevalenti sostengono lo sviluppo e l’esercizio di questa capacità».

Sensibile alle ineguaglianze di status sociale e alle differenze economiche che perpetuano relazioni di dominio e fondano relazioni arbitrarie di sopraffazione, Wollstonecraft studiò gli effetti psicologici delle relazioni di dominio e subordinazione, in particolare sul senso del rispetto di sé. E oggi Mackenzie raccoglie il testimone di Wollstonecraft. «L’approccio relazionale riconosce l’importanza dell’autonomia personale ma rifiuta l’eccessivo individualismo che caratterizza le concezioni liberali dell’autonomia, e soprattutto quelle libertarie, e richiama l’attenzione sulle dimensioni sociali del sé e dell’autonomia. La nostra identità di individui prende forma in virtù delle relazioni sociali, di determinanti sociali come il genere e la classe, e dei contesti storici, politici e geografici nei quali viviamo le nostre vite».

Il principio di autonomia è al centro di molti dibattiti di etica applicata, da quelli sulla fine della vita, a quelli sulle tecnologie riproduttive e genetiche e sul mercato di organi. Tuttavia, c’è un profondo disaccordo su che cosa il principio di autonomia e su che cosa comporti.«Per molti bioeticisti influenzati da prospettive libertarie, che intendono l’autonomia come libertà massima di scelta individuale, il rispetto per l’autonomia comporta la minima interferenza con la libertà degli altri di scegliere, a meno che queste scelte non siano dannose. Per contro, le teorie relazionali sostengono che dovremmo tener conto anche dei vincoli sociali sulla scelta individuale. L’esercizio incontrollato della libertà individuale di scelta può dar origine a danni sociali e ingiustizie. È il caso dello sfruttamento, per esempio nel caso del mercato di organi, e dell’oppressione di genere, per esempio nel caso della tecnologia per la selezione del sesso».

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