Cultura

La decadenza del cuoco

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A ME MI PIACE

La decadenza del cuoco

Cooking show. Ferran Adrià sul set fotografico del calendario Lavazza 2014
Cooking show. Ferran Adrià sul set fotografico del calendario Lavazza 2014

La fine è la più importante; lo sa bene il “nostro” Gastronauta Davide Paolini, che chiude il suo Crepuscolo degli chef con la stella della sera, luminosissima, del firmamento culinario: Fulvio Pierangelini, grande uomo di cultura prima che cuoco, di cultura perché ne capisce di coltura. «Ho ripreso ad allevare galline – ha detto una volta – Ho preparato un cd con il fruscio del vento: migliora la qualità delle uova».

Ovvio che per uno così, che ama Kierkegaard e Strindberg, «la semplicità è un punto d’arrivo... Un cuoco è principalmente un esecutore, oggi troppi si credono compositori. Il mondo ha più bisogno di una perfetta schnitzel che di un’improbabile sogliola al cioccolato». È questa, riassunta in appendice, anche la fenomenologia del gusto di Paolini, che firma dal primo numero della «Domenica del Sole 24 Ore» (1983) la rubrica «A me mi piace».

Il crepuscolo degli chef parte da una constatazione fondamentale: l’industria alimentare è in crisi eppure i media campano sull’affabulazione del gran circo culinario, ciarlano di «food show e Grande Bouffe» e spiano voyeuristicamente l’«orgia del cibo». Si tratta di un gioco schizofrenico, di un cortocircuito paradossale «tra bolla mediatica e crisi dei consumi», tra cibo-totem e cibo-tabù, tra superfetazione del food system e ossessione per la salute e magrezza, tra gastronomia e gastrofobia.

In realtà, ovvero agli antipodi del fasullo storytelling, la spesa alimentare in Italia è calata sia in quantità sia in qualità, tornando a livelli di 25 anni fa: «Tra 2006 e 2014 i consumi alimentari hanno ceduto oltre 12 punti percentuali, un ritmo doppio se confrontato all’andamento dei consumi in generale (-6,4%)». Inoltre, il saldo tra aperture e chiusure di pubblici esercizi di cibo è negativo da anni e «l’industria alimentare perno dell’export italiano registra una riduzione del 5,3%».

Ai dati poco confortanti vanno aggiunti altri problemi del comparto, quali la contraffazione («italian sounding»), i falsi miti («Kamut, chilometro zero»), le recensioni truffaldine su Tripadvisor e affini, gli sprechi alimentari... Tra polemista dei costumi culinari e storico della ristorazione, Paolini cerca di contrastare «l’analfabetismo gastronomico» dilagante nel “Buon Paese”. Per lui, storpiando Feuerbach, «l’uomo non è ciò che mangia; l’uomo è ciò che immagina di mangiare». Oggi il cibo non si assaggia, si mangia con gli occhi, in tv o su Instagram, all’insegna del «godimento onanistico-estetico e del food porn».

Protagonisti della cucina non sono più le materie prime, la filiera produttiva, la lavorazione, gli agricoltori, ma la ricetta, la forma, il colore, lo stupore, «in sintesi, lo spettacolo»: lo «chef star system», come la moda, vive di eventi e si fonda sul «dogma “stupire & divertire”», mentre il «mangiar bene» passa in secondo piano. La performance è tutto, e infatti «gli chef, come gli stilisti, si esibiscono in passerella, per fare spettacolo, abiti che non verranno mai prodotti».

Già Pellegrino Artusi stigmatizzava i «cuochi di baldacchino», i prim’attori della «cucina-spettacolo»: un genere, si badi bene, che non è nato in tv o sul web, ma nel raffinato Rinascimento, «quando i banchetti erano vere e proprie rappresentazioni... In termini diversi, e in tempi assai più recenti, l’ha riproposta uno chef visionario, lo spagnolo Ferran Adrià, che ha dato vita alla “metacucina”».

Dopo Adrià, il diluvio, o meglio un’alluvione di creativi, «uno stuolo di imitatori maldestri e impacciati, una rincorsa alla stupefazione gratuita e astrusa, una proliferazione di strampalati guazzabugli, che dimenticano il piacere del gusto, in nome di un’originalità fine a se stessa». Questo pernicioso esibizionismo «ha contaminato larga parte del gotha internazionale, compresi i più blasonati chef italiani (Massimo Bottura, Davide Scabin, Carlo Cracco, Moreno Cedroni, Andrea Berton, Enrico Crippa, Max Alajmo e così via)».

L’identità e la territorialità si stanno estinguendo per far posto al moderno «esperanto» della cucina contemporanea, sterilmente meticcia e contaminata per vezzo più che per necessità: l’ibridazione insensata si nota già nell’onomastica, con neologismi come «apericena, finger food, brunch, fusion, tex-mex...».

Grazie poi al «cooking show», i cuochi, scomparsi dalle cucine e irreperibili ai fornelli, sono riapparsi in tv, come guru e maestri; manca poco che i maître di sala vengano scambiati per maître à penser: tuttavia, «imparare a far da mangiar in tv è come imparare a far l’amore con la pornografia». Il circo culinario non ha finalità pedagogiche, punta solo all’intrattenimento: perciò le parti in commedia, i characters dei concorrenti, le battute dei giudici contano più dei piatti e, soprattutto, del contenuto dei piatti.

Come scriveva Paolo Sorrentino nel suo esilarante romanzo: «La decadenza del mondo non è forse cominciata a partire da quel cazzo di crème caramel? Poi saremmo precipitati nel risotto allo champagne, inghiottiti dalle pennette alla vodka, consegnandoci al fallimento lucido, lineare. Il mondo cambia a seconda dei menu».

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