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Scandali e virtù della quasi presidente

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RITRATTO DI HILLARY

Scandali e virtù della quasi presidente

Classe 1947. Martedì si decide il destino di Hillary Clinton: andrà a no alla Casa Bianca?
Classe 1947. Martedì si decide il destino di Hillary Clinton: andrà a no alla Casa Bianca?

La politica l’ha sempre sognata, coltivata, inseguita con caparbietà. Quando le sue coetanee pensavano a sfoggiare gli abiti dei mitici anni Sessanta e coltivavano i primi innamoramenti, l’adolescente Hillary Rodham, all’epoca fervente militante repubblicana, trascorreva i pomeriggi a controllare gli elenchi degli elettori democratici per scovare le doppie iscrizioni. Era il 1964 quando partecipò, giovanissima, alla campagna a sostegno del candidato ultraconservatore alla presidenza, il senatore repubblicano Barry Goldwater.

Quarant’anni nel ventre della politica americana, al punto di poter dire di aver costituito una nuova dinasty, come lo è stata quella dei Kennedy, dei Bush ma anche dei Kerry e dei Romney, padri, figli, fratelli e mogli che si tramandano posizioni di potere. Sono trascorsi oltre quarant’anni da quando Hillary Clinton, giovanissima e brillante laureata in legge a Yale fece parte, su indicazione del partito democratico, del comitato bipartisan di esperti legali che affiancò la commissione parlamentare d’inchiesta sullo scandalo Watergate. Un lavoro delicatissimo che costrinse il presidente Richard Nixon alle dimissioni.

E sono trascorsi quasi quarant’anni da quando Bill Clinton, spalleggiato dall’efficace moglie, fu eletto al suo primo incarico pubblico, quello di Attorney General dello Stato dell’Arkansas, un ruolo vagamente assimilabile a quello del nostro ministro della Giustizia.

Dalla metà degli anni Settanta ad oggi Hillary Clinton è stata First Lady dell’Arkansas, First Lady d’America, responsabile della riforma sanitaria con il rango di ministro, senatrice eletta in uno Stato chiave come quello di New York, candidata alle primarie del partito democratico per la presidenza, Segretario di Stato dell’amministrazione Obama.

Quando era al college, a Wellesley, istituto di élite appartenente alle cosiddette Seven Sisters, le «Sette Sorelle», le università femminili più prestigiose degli Stati Uniti, a Hillary, in considerazione dei suoi brillanti risultati negli studi, fu affidato il discorso ufficiale a nome di tutte le laureande e lei ne approfittò per polemizzare, con competenza, con la più alta autorità presente alla cerimonia, il senatore Edward W. Brooke, l’unico senatore afroamericano dell’epoca, un repubblicano.

Proveniente da una ricca famiglia della borghesia industriale di Chicago, cresciuta nel lussuoso sobborgo di Park Ridge, impregnata dei principi della chiesa metodista, Hillary è stata sempre prima della classe, volitiva e determinata, sicura di sé fino a sentirsi predestinata agli obiettivi che poi conseguirà.

Non pochi commentatori della storia recente americana hanno convenuto nell’affermare che senza la sua presenza difficilmente Bill Clinton sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti. Nel 1980 Bill non fu riconfermato governatore dell’Arkansas, scalzato dall’onda lunga del reaganismo che fece vincere il candidato repubblicano. Cadde in depressione e voleva ritirarsi dalla politica, fu lei a tirarlo fuori dalle difficoltà e rimetterlo in pista per la rivincita. Si deve a Hillary la costruzione di quella rete di alleanze nel partito democratico e di cospicui finanziamenti che lo porteranno alla Casa Bianca nel 1992.

Durante quella campagna lei si spese al pari di Bill in comizi e in un tour elettorale autonomo, diventando una sorta di alter ego del marito candidato, ecco perché nacque nei media americani il motto «prendi due paghi uno» o la definizione di «Billary», binomio di potere prima ancora che matrimonio. Del resto, alla vigilia della vittoria di Bill, chiarì che non avrebbe «fatto i biscotti per prendere il tè» ma avrebbe avuto un ruolo attivo nell’esecutivo. Pretese con forza, primo caso di una First Lady, un ufficio nell’ala di potere dell’edificio della Casa Bianca, accanto ai più stretti collaboratori del presidente, e a ottenere il rango di ministro.

Il suo apporto sarà decisivo in alcune scelte chiave, sarà lei a ispirare quella svolta centrista in materia economica, che porterà l’amministrazione Clinton ad abbandonare quelle visioni molto a sinistra maturate all’epoca della contestazione studentesca a Yale, per convergere verso politiche più realistiche.

La vita di Hillary, oltre che da grandi successi personali, è stata scandita anche da grandi scandali dai quali è riuscita, fino ad oggi, a uscire indenne giuridicamente ma non senza ombre. È stata un avvocato di grido, che ha lavorato per uno degli studi più antichi degli Stati Uniti, il Law Rose Firm, e ha fatto parte dei consigli d’amministrazione di importanti corporation, a cominciare da Walmart, colosso globale della grande distribuzione che dispone di circa undicimila ipermercati, sparsi in quindici Paesi, tra cui anche Cina e India, e circa due milioni di dipendenti, ed è capace di fare incassi pari al Pil di 154 nazioni. Ha lavorato per Lafarge, multinazionale francese produttrice di manifatture di cemento, la Tyson Food produttrice di pollame, la Stephens Inc., la Worthen Bank e l’Hussman media Holdings.

Nella sua professione ha guadagnato molto ma ha sollevato enormi problemi di conflitti d’interesse. La partecipazione al board di Walmart è stata al centro di un’inchiesta del «New York Times», che pure l’ha sempre politicamente sostenuta; secondo quanto scrive Michael Barbaro, nel maggio 2007, questo ruolo «è poco conosciuto e lei stessa raramente ne discute». Hillary aveva sicuramente le competenze professionali per entrare nel board di questa multinazionale, ma era anche la moglie del governatore dello Stato dove Walmart ha la sua sede legale. Il quartier generale della multinazionale è, infatti, a Betonville, e secondo le leggi Usa, non pochi aspetti legali che attengono alla vita di una società sono di fatto regolati dallo Stato dove si è stabilita la sede legale.

Bernie Sanders, l’anziano senatore del Vermont che ha conteso a Hillary la nomination democratica, l’ha più volte attaccata per i suoi rapporti con la finanza di Wall Street.

Nel mese di ottobre 2013, Goldman Sachs ha pagato a Hillary Clinton 225mila dollari per parlare alla conferenza «Costruttori e innovatori» organizzata a Marana, in Arizona, presso il Ritz-Carlton Mountain Resort, davanti a una platea di finanzieri. L’intervento è stato articolato come una conversazione tra lei e l’amministratore delegato di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein.

Sul tema scrive Cnn Money: «Il discorso nel 2013 è stato uno dei tre che Clinton ha fatto per conto di Goldman Sachs. Secondo i registri pubblici, Clinton ha tenuto, tra il 2013 e il 2015, ben novantadue discorsi. La sua quota standard è di 225mila dollari, e ha raccolto 21,6 milioni di dollari in poco meno di due anni. Clinton ha fatto otto discorsi alle grandi banche, compenso 1,8 milioni, secondo un’analisi della Cnn».

Si tratta di attività perfettamente legali e diffuse negli Stati Uniti, ma che hanno fatto storcere il naso alla base democratica. Come è notevole la serie di scandali che l’ha coinvolta: la speculazione immobiliare di Whitewater, i rapporti con i giganti finanziari di Wall Street, il Travelgate alla Casa Bianca, il suicidio di Vince Foster, la morte a Bengasi dell’ambasciatore americano Chris Stevens, fino all’ultimo clamoroso dell’emailgate. Ne è uscita giuridicamente indenne ma con un’immagine appannata.

Hillary ha dovuto sopportare vicende private di non poco conto, i tradimenti seriali del marito, un lungo elenco, oltre dieci i casi conclamati, a cominciare dal clamoroso sexgate. Molte donne si chiedono se non fosse stato il caso di rompere il matrimonio.

Quello che non è stato mai in discussione è la sua grande competenza, come giurista e politica, capace di ascoltare e comprendere la società americana. Per lei può valere quanto teorizzato da Machiavelli nel Principe: non sempre etica ed efficienza del potere vanno insieme. Il «New York Times» nel motivare il suo sostegno a Hillary ha scritto: «Il nostro endorsement ha le sue radici nel rispetto per l’intelligenza della Clinton, per la sua esperienza, per la sua tenacia e il coraggio dimostrati in una carriera di quasi ininterrotto servizio pubblico».

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