Cultura

Il decadente necessario

  • Abbonati
  • Accedi
Musica

Il decadente necessario

L’ultimo, lapidario commento globale lo fece poco meno di un mese fa, chiudendo in modo definitivo il dibattito sull’opportunità del Nobel all’amico (e alter ego nella narrazione dell’epica americana) Bob Dylan: «It’s like pinning a medal on Mount Everest for being the highest mountain». Giovedì scorso se n’è andato il più grande poeta in musica del nostro tempo, Leonard Cohen. A 82 anni il cantautore canadese aveva appena dato alla vita il quattordicesimo album (in studio), You Want It Darker, che è anche il suo testamento spirituale, come si conviene a chi vive, scrive e sente con le antenne del visionario (in particolare, Cohen era devoto alla Kabbalah).

Così fu, lo scorso inverno, per il profetico e potente Blackstar di David Bowie, uscito il il giorno prima della morte. A Cohen è andata forse peggio, essendosene andato due giorni dopo l’elezione di Trump, che rappresenta una certa idea di America e del mondo sulla quale il cantautore canadese ci avrebbe detto, e dato, molto. Da buon Monaco Zen, senza la retorica militante di un certo mondo liberal americano. Ma Cohen è stato un poeta politico nel senso arcaico del termine; laddove il folksinger Dylan ha incarnato (e in parte prodotto) il racconto del cambiamento sociale e culturale dell’America della Frontiera, il songwriter Cohen ha disegnato intuizioni e visioni esistenziali, offrendoci alcune tra le poesie musicali più metafisiche, trascendentali e spirituali della seconda metà del Novecento.

Nessuno che abbia ascoltato Cohen anche solo su YouTube, potrà dire di non fidarsi delle sue canzoni. Impossibile. Ogni singola opera nasce perché necessaria e coerente. Nasce dopo una lotta interna, in cui di volta in volta una parte di Cohen soccombe. Fino al sacrificio totale. Guy Bebord diceva: «Dobbiamo fondare, tutti noi, la fiducia sulla coerenza. E non viceversa». Ecco, Leonard Cohen è stato il più coerente dei cantautori.E il più fedele dei poeti. La storia è questa: il giovane Leonard Norman si affaccia al mondo non con un album, ma con un libro di poesie, Let Us Compare Mythologies, nel 1956. L’anno successivo, pubblica per Folkways Records il reading Six Montreal Poets, con cui rivendica una nuova via filosofica e introspettiva, alternativa al modello vittoriano dominante, della poesia canadese. Nell’isola greca di Hydra scrive i celebri Flowers for Hitler e due romanzi, Il gioco favorito (The Favourite Game, 1963) e Belli e perdenti (Beautiful Losers, 1966). Il primo romanzo è l’occasione per comprendere, da subito e senza equivoci, le meccaniche della poetica di Cohen: «chiunque abbia un minimo di orecchio si accorgerà che ho squassato orchestre intere per arrivare a una piccola linea melodica».

La prima opera da cantautore è di dieci anni dopo, Songs of Leonard Cohen. Come in ambito poetico e letterario, trapela un certo ottimismo, trattando l’album di suicidio, tema caro a Cohen. Le sue opere hanno attraversato i generi e gli stili della musica non solo popolare e non solo del Novecento (dal rebetiko al country, dalla liturgia medievale al tango). Invece la sua voce, una persistente lama scura, è rimasta coerente con la vocazione di Cohen a raccontare senza compromessi i movimenti interiori di una coscienza che viaggiava a frequenze fuori dal comune, evocando l’affresco decadente della nostra società. Non era da solo. A condividere questa maledizione, altri irregolari del Secolo, in primis David Lynch. Se Cohen non fosse esistito, è stato detto, Lynch avrebbe voluto inventarlo. Ma, al netto dei discepoli (Nick Cave in testa), il vero alter ego di Leonard Cohen è stato - e continuerà ad essere - Bob Dylan. Insieme, hanno dato ritmo e respiro a una parte importante dello storytelling contemporaneo: mentre Dylan catturava storie nel mondo per portarle a sé, Cohen le cercava dentro la propria coscienza, per liberarle. Insieme, hanno creato una cosmogonia dell’apocalisse (Dylan raccontandoci ciò che ci attende fuori, Cohen piuttosto evocandoci il peso che portiamo dentro). Ora resterà tutto, non solo i capolavori come Hallelujah (Various Positions, 1984), canzone diventata da subito uno standard, rivista nel tempo da oltre 180 artisti, da John Cale (il primo, nel 1991) a Jeff Buckley (nel 1994), fino alla vincitrice di X Factor Alexandra Burke (nel 2008). Ma anche Bird on the Wire, una delle signature songs di Cohen, ballata sociale concepita a Hydra (osservando un uccello posato su uno dei primi cavi telefonici dell’isola), terminata tempo dopo in un motel di Hollywood e infine registrata nel 1968 a Nashville. Molte le canzoni riprese e liberamente reinventate, senza tradirne la sostanza, come si conviene all’opera dei veri poeti; in particolare Dance me to the end of World (1984) cantata da Madeleine Peyroux e da The Civil Wars.
Sopra tutto, i leitmotiv della depressione, della fede, della ricerca ostinata e del rigore. Questione di stile, al di là del vestito pubblico, sempre composto e impreziosito dall’immancabile Borsalino. Da cui si libera solo nel periodo in cui abbraccia la filosofia buddhista (erano gli anni ’90), senza dubbio metafora dell’esplorazione verticale di Cohen. Perché, nella musica del poeta canadese, non bisogna cercare l’estensione (che pure c’è), ma la profondità.

Coerentemente con la propria vocazione, Leonard Cohen ha infine composto una unica, grande opera. Ripensando ad Hallelujah, disse a Dylan di aver scritto ottanta strofe prima di scegliere le sei da incidere e di averci impiegato due anni a farlo: «Ricordo che ero al Royalton Hotel, seduto in mutande sul tappeto, mentre sbattevo la testa sul pavimento dicendomi “Non riesco a finire questa canzone”». La Storia gli darà ragione. Lo farà fino alla fine. Tra i molti riconoscimenti, il Premio Príncipe de Asturias de Las Letras (nel 2011), di cui è disponibile online un memorabile speech. Ci mancherà, ma da oggi gli saremo ancora più grati di esserci stato. L’ultima intervista, profetica, poetica e lapidaria, al New Yorker: I am ready to die. I hope it’s not too uncomfortable. That’s about it for me».

© Riproduzione riservata