Cultura

Recuperando i ricordi

  • Abbonati
  • Accedi
Cinema

Recuperando i ricordi

«Fai bei sogni» di Marco Bellocchio. Nicolò Cabras (Massimo) e Barbara Ronchi (mamma di Massimo)
«Fai bei sogni» di Marco Bellocchio. Nicolò Cabras (Massimo) e Barbara Ronchi (mamma di Massimo)

Che cosa narra, davvero, Fai bei sogni (Italia, 2016, 134’)? La vicenda è quella del libro pubblicato da Massimo Gramel-lini nel 2012. Marco Bellocchio e i cosceneggiatori Edoardo Albinati e Valia Santella mettono dunque in scena la vita di Massimo (Valerio Mastandrea) dal 1969 alla soglia del 2000. Intanto, sullo sfondo raccontano l’Italia che dal bianco e nero di Belfagor e Canzonissima si avvia al disorientamento multi-colore di oggi.

Fai bei sogni si apre sulla gioia di Massimo che a nove anni (Nicolò Cabras) gioca con la madre (Barbara Ronchi). Lo sguardo tenero della donna è velato, come se un peso gravasse sulla loro felicità. Poco dopo, la mattina del 31 dicembre 1969, il bambino intravede nel corridoio di casa due sconosciuti che sorreggono il padre (Guido Caprino). La notte precedente la madre è entrata nella sua camera, lo ha accarezzato con mano lieve e gli ha sussurrato «fai bei sogni». Ora gli raccontano che si è sentita male, che è in ospedale... Gli diranno poi che è morta, senza spiegargli come. Ci vorranno trent’anni perché quelle parole, fai bei sogni, si illuminino di significato.

A partire da I pugni in tasca (1965), nel cinema di Belloc-chio si incontrano e si intrecciano due linee espressive. La prima, poetica in senso stretto, è quella della memoria familiare, degli affetti ambivalenti il cui racconto si conserva e vive nel luogo mitico della casa. La seconda è quella della presenza dell’autore nel suo tempo, con un impegno che si è fatto sempre meno pregiudiziale e sempre più intelligente. A noi sembra che le due linee si leghino anche in questo ultimo film, e che, nel dipanarle, Bellocchio non faccia proprio il punto vista di Gramellini, ma lo utilizzi per dar voce a un punto di vista del tutto suo.

C’è dunque, in Fai bei sogni, uno sguardo poetico che coglie un abbandono, una mancanza affettiva, e c’è una linea critica storica e sociale. Questa, meno evidente ma non marginale, percorre i trent’anni nei quali l’Italia perde se stessa in trame e volgarità culturali. Le prime, non lontane da quelle raccontate nella seconda parte di Sangue del mio sangue (2015), sono quasi simbolicamente adombrate (nel film) dalla schianto del Torino contro la collina di Superga, per poi culminare nel suicidio di un protagonista “eroico” e tragico della stagione di mani pulite. Quanto alla volgarità culturale, è lo stesso Massimo che la smaschera, raccontando di una lettera cui il direttore del suo giornale lo incarica di rispondere. E la risposta, decisiva per la sua carriera, è (cinicamente?) scritta per ottenere dai lettori un consenso e unentusiasmo che un suo collega, disincantato e sarcastico, dichiara però degno del Cuore deamicisiano. Così, quando va bene, è oggi il nostro immaginario, retorico e cinico insieme. E questo è il nostro linguaggio pubblico prevalente, non solo letterario: un linguaggio furbo, che passa
per profondo.

Nel racconto di Bellocchio c’è poi, bene evidente, la dimensione della memoria e degli affetti. Il suo Massimo è legato a quella mattina di un dicembre che si perde nel passato e la cui ferita dolorante è riaperta dalla morte del padre. Tornato nella casa dell’infanzia e della prima giovinezza, nei suoi locali abbandonati e negli oggetti che un tempo furono “vivi” Massimo recupera il racconto di se stesso. Non importa che una verità nascosta e dolorosa gli sia svelata. Non importa che rischi di sentirsi ancora più abbandonato. Importa che torni ben dentro il luogo mitico del suo inizio, nella scena primaria della sua storia di vita.

Siamo così all’epilogo, scritto e girato in felice autonomia poetica dal libro di Gramellini. Nella casa del padre, nel suo vuoto silenzioso, l’uomo torna a incontrare il bambino. Leggera, rivive la voce della madre. Nascosto dentro uno dei grandi scatoloni accatastati in corridoio, protetto e avvolto in quell’ombra che lo stringe a sé, Massimo ritrova la gioia immediata e quieta di trent’anni prima. Di questo ritrovamento, alla fine, davvero racconta Marco Bellocchio.

%%%%%

© Riproduzione riservata