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Come si misura la coscienza

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Come si misura la coscienza

  • –Giulio Tononi

L’anno scorso l’«Economist», in una sezione speciale dedicata ai più grandi problemi scientifici irrisolti, terminò la rassegna con la coscienza: «il più profondo di tutti i misteri scientifici». La coscienza sembra persino più enigmatica dell’origine dell’universo - secondo molti non sappiamo nemmeno da dove cominciare. E invece che poterci giustificare con l’impossibilità pratica di andare indietro nel tempo o di passare da un universo all’altro, la coscienza è letteralmente a portata di mano: un pugno ben assestato che sconquassi il cervello e la coscienza scompare del tutto. Una fiala di anestetico in vena e ciascuno di noi si spegne nel nulla – letteralmente cessiamo di esistere. E ogni sera, quando cadiamo addormentati di un sonno profondo, svaniscono improvvisamente spazio, tempo, pensieri, forme, colori, suoni, sentimenti ed emozioni – svanisce tutto, noi stessi, il nostro mondo, l’universo intero. Per ritornare altrettanto improvvisamente quando sogniamo o quando ci svegliamo.

Sappiamo bene, ormai, che la coscienza dipende dal cervello, che è una macchina biologica complicata. È fatto di materia che non ha nulla di misterioso: come il cuore, il cervello è fatto di miliardi di cellule specializzate a condurre impulsi elettrici. Non solo. Ormai abbiamo apparecchi sempre più potenti per guardare dentro il cervello, scoprire come è organizzato, regione per regione, cellula per cellula, e stabilire come ogni neurone è collegato ad altri neuroni, sinapsi per sinapsi. E siamo sulla buona strada per capire come funziona – come può distinguere una faccia dall’altra, come può immagazzinare memorie, e come controlla il movimento. Si tratta di funzioni complicate, ma che non pongono problemi insuperabili, tanto che stiamo costruendo macchine capaci di eseguirle quanto o meglio di noi.

Eppure, come dai neuroni si sprigioni l’esperienza soggettiva – il colore del cielo e la felicità di un tramonto – come «l’acqua del cervello si trasformi nel vino della coscienza» sembra davvero un miracolo inspiegabile. Il filosofo David Chalmers lo ha chiamato «The hard problem» (il problema difficile) per antonomasia perché sembra impossibile anche solo immaginare una soluzione. Più studiamo, più la coscienza appare misteriosa. Per esempio, il cervelletto contiene più della metà degli 86 miliardi di neuroni del cervello, ma anche se si asporta chirurgicamente continuiamo ad essere coscienti come prima. Perché? E perché l’esperienza svanisce durante il sonno profondo, anche se i neuroni continuano ad essere attivi? O ancora, sono coscienti gli animali? Cosa si prova a essere un pipistrello, come si chiese un altro filosofo, Thomas Nagel, concludendo che la scienza non potrà mai darci una risposta? Si prova qualcosa a essere un polpo o una mosca? Quanto noi? Meno di noi? E un calcolatore che sapesse riprodurre in tutto e per tutto il nostro comportamento, sarebbe cosciente?

Nonostante lo scetticismo che per una volta accomuna filosofi e scienziati, rispondere a queste domande non è necessariamente fuori dalla portata della scienza. La teoria dell’informazione integrata (IIT) mira precisamente a spiegare che cos’è la coscienza, a caratterizzare i requisiti dei sistemi fisici che la rendono possibile e a misurarne la quantità e la qualità. L’approccio consueto - studiare le caratteristiche del cervello e cercare di derivarne in qualche modo l’esperienza soggettiva, ossia andare dalla fisica alla fenomenologia - si scontra inevitabilmente con l’hard problem.

IIT rovescia i termini della questione, andando dalla fenomenologia alla fisica: invece di partire da come è fatto il cervello o dalle funzioni che svolge, IIT comincia con l’identificare le proprietà essenziali della coscienza stessa per derivarne i requisiti necessari e sufficienti perché un substrato fisico renda possibile l’esperienza soggettiva. Le proprietà essenziali della coscienza – vere di ogni esperienza concepibile - sono cinque: l’esperienza esiste intrinsecamente (per il soggetto, non per un osservatore esterno); è strutturata (è composta di svariati contenuti e delle loro relazioni); informativa (ogni esperienza è specifica - quella che è, pertanto diversa da innumerevoli altre); integrata (una e irriducibile); definita (ha i contenuti che ha, nulla di meno e nulla di più).

Queste cinque proprietà essenziali della fenomenologia sono tradotte da IIT nei cinque requisiti fisici che devono essere necessariamente soddisfatti da qualsivoglia substrato fisico della coscienza. Dove per “fisico” si intende, in modo del tutto generale, qualunque substrato che abbia potere causale – ossia che possa essere manipolato od osservato, direttamente o indirettamente - dal cervello ai neuroni alle particelle elementari.

A tutto questo, IIT dà una veste matematica, arrivando a una formulazione precisa: il substrato fisico della coscienza deve essere un massimo globale di potere causale intrinseco, composizionale, specifico e irriducibile. Non è possibile spiegare adeguatamente in poche righe cosa significhi quest’espressione convoluta, né come IIT ne deduca la qualità dell’esperienza (ha a che fare con la struttura del potere causale che compone l’informazione integrata).

Conviene sottolineare, peraltro, che IIT è l’antitesi del riduzionismo: persino l’unità di misura fondamentale di informazione integrata, Phi, è una misura di irriducibilità, che indica se e quanto il tutto non possa essere ridotto alle sue parti. Una delle conseguenze della teoria è proprio che la coscienza in linea di principio è misurabile: tanto più alto il valore di informazione integrata Phi, tanta più coscienza. La teoria si può quindi mettere alla prova dei fatti. Così è stato sviluppato un “coscienziometro”, per quanto ancora primitivo, che utilizza uno stimolatore magnetico transcranico e un gran numero di elettrodi per leggere l’integrazione dell’informazione dalle risposte del cervello.

Per quanto grossolana, la stima di Phi così ottenuta funziona: come dimostrato dal gruppo di Marcello Massimini a Milano e altri collaboratori, è attualmente il miglior indice clinico per valutare il livello di coscienza in pazienti con gravi lesioni cerebrali, e funziona anche nell’anestesia generale e nel sonno. In alcuni casi, la stima di Phi suggerisce che pazienti apparentemente incoscienti perché rimangono immobili e non rispondono agli stimoli possono ciononostante essere coscienti, come succede a tutti noi quando sogniamo. In linea di principio, IIT può servire a stabilire se e quanto siano coscienti animali diversi da noi, a chiarire perché la coscienza si sia evoluta e a spiegare perché certe regioni della corteccia cerebrale siano essenziali per la coscienza e altre no. Ciò è già chiaro per il cervelletto: la ragione per cui non ha nulla a che fare con la coscienza è che, nonostante il grandissimo numero di neuroni, è organizzato in moduli separati che impediscono l’integrazione dell’informazione.

Per finire, la teoria ha implicazioni importanti per l’intelligenza artificiale, che sta creando sempre più freneticamente nuove macchine capaci di uguagliare e persino superare le nostre capacità cognitive. Eppure, secondo IIT, anche se un domani un calcolatore fosse in grado di replicare perfettamente tutte le funzioni cognitive di una persona cosciente, magari con una precisa e dettagliata simulazione di ogni neurone del suo cervello, non potrebbe essere cosciente - anche se citasse Dante e fischiettasse Verdi, sarebbe letteralmente solo una macchina che recita una parte, senza avere né esperienza soggettiva né libero arbitrio; una macchina che esiste per noi, osservatori esterni, ma non per sé stessa, dall’interno. La ragione per cui un calcolatore con un’architettura tradizionale (alla von Neumann, ossia praticamente tutti i calcolatori esistenti) non potrà mai essere cosciente segue direttamente da IIT: l’architettura di un calcolatore non può supportare un massimo globale di potere causale intrinseco e irriducibile. Il che pone varie questioni etiche. Anche se un calcolatore del genere, al comando di un corpo adeguato, potesse incantarci quanto e meglio del più affascinante dei nostri simili, nell’aspetto e nel comportamento, nell’intelligenza e nei sentimenti, come suggerito da film e sceneggiati, IIT dice altrimenti: dietro occhi seducenti ed espressivi non ci sarebbe assolutamente niente – il vuoto dell’incoscienza. E se tali macchine prendessero il sopravvento, il mondo diventerebbe, nelle parole del grande fisico quantistico Erwin Schrödinger «una recita davanti a un teatro vuoto» – un teatro di marionette per marionette. Perché fare non è essere, ed essere è essere coscienti.

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