Cultura

«Purgatorio», teso e claustrofobico gioco di specchi

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Teatro. in scena il dramma scritto da Ariel Dorfman

«Purgatorio», teso e claustrofobico gioco di specchi

Laura Marinoni, protagonista femminile di “Purgatorio”, di Ariel Dorfman
Laura Marinoni, protagonista femminile di “Purgatorio”, di Ariel Dorfman


Non credo che Ariel Dorfman, lo scrittore e drammaturgo argentino di nascita, ma trapiantato nel Cile di Salvador Allende, famoso soprattutto per un testo sull’ambigua rivalsa di una vittima nei confronti del suo torturatore, La morte e la fanciulla, portato sullo schermo da Roman Polanski, sia in assoluto un grande autore teatrale: però questo suo Purgatorio allestito da Carmelo Rifici per il LAC di Lugano, che ha debuttato sere fa all’Arena del Sole di Bologna, è un bel dramma teso, nervoso, costruito con sapienza, che attira lo spettatore in un claustrofobico gioco di specchi.
Più che una riscrittura della Medea, come per certi versi parrebbe essere, è un’opera autonoma che parte dalle vicende della Medea, pur senza mai nominarne i personaggi originari, per approdare a una situazione dal sapore vagamente sartriano: l’azione è ambientata in un metaforico purgatorio, uno spazio vagamente concentrazionario – un po’ una clinica psichiatrica, un po’ carcere, un po’ ideale aldilà, permeato di suggestioni metafisiche – in cui di fatto non si è rinchiusi, perché comunque, anche fuggendone, lì si dovrebbe pur sempre tornare, non essendovi un altrove verso il quale andare.

Faticosa ricerca di sé

L’aspetto più singolare di questo purgatorio è che esso non sembra un luogo di punizione o di espiazione dei peccati: le due figure che vediamo nelle sue stanze – ma ve ne sono molte altre, a quanto si apprende – non devono confessare le colpe del passato, che “loro”, gli ignoti responsabili del procedimento, paiono dare per scontate, forse addirittura per superate. L’obiettivo è invece una faticosa ricerca di sé, l’approdo a una sofferta verità personale. Se per Sartre «l'inferno sono gli altri», per Dorfman il purgatorio siamo noi stessi, è la strada che ci porta a un doloroso auto-riconoscimento.
Non a caso Rifici, nella sua serrata messinscena, fa dei protagonisti due entità in continua mutazione verso il nucleo della loro identità più profonda: all’inizio lei è una bionda vistosa con un abito da sera nero, lui ha i modi rassicuranti di uno psichiatra in camice bianco. Nel secondo quadro si scambiano i ruoli, lei, la bionda, ha il camice bianco mentre lui, in maglione e pantaloni scuri, fa i piegamenti e si mostra ipocrita, reticente. Nel terzo lei non è più bionda, appare scarmigliata, indossa panni dimessi. Alla fine vestono uguale: non c’è più medico e paziente, ci sono solo loro, Medea e Giasone, moglie e marito, che devono curarsi a vicenda: «Io e te. L’unica cosa vera di questa storia».

Atmosfera sospesa
Giustamente il regista colloca questo itinerario di svelamento, di progressiva spoliazione in una sfuggente terra di nessuno. L’impianto scenico ideato da Annelisa Zaccheria suggerisce una sorta di appartamento che ha anche un che di artefatto, di fasullo, come uno studio televisivo pieno di microfoni e telecamere puntate: da un lato un asettico salottino che potrebbe anche diventare una gelida stanza degli interrogatori, dall’altro una camera da letto. E in alto, a sovrastare il tutto, uno schermo su cui si materializzano le immagini struggenti dei due bambini uccisi, fantasmi digitali in mezzo ai quali, a un certo punto, va a sedere la madre assassina, come l’emblema di un’impossibile serenità famigliare.
Concorre a creare quest’atmosfera sospesa l’aguzza traduzione di Alessandra Serra, e assume un peso decisivo la penetrante interpretazione dei due bravissimi attori, Laura Marinoni e Danilo Nigrelli: lei spietata nello scavare dentro di sé alla ricerca di una difficile redenzione, ma irriducibile, in definitiva, nel suo rifiuto di invocare il perdono. Lui più sfumato, più incline a nascondersi dietro la maschera del terapeuta-inquisitore, ma con l'amara consapevolezza di trovarsi in un unico labirinto interiore, condannati entrambi – e questa forse è la loro vera maledizione – a odiarsi e amarsi al tempo stesso, a riscattarsi o a sprofondare insieme.

«Purgatorio» di Ariel Dorfman, regia di Carmelo Rifici. Dal 17 al 20 novembre allo Storchi di Modena, il 22 e 23 al LAC di Lugano.

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