
Fra i più grandi e famosi poeti del Novecento, Federico García Lorca è oggi il più dimenticato. Dall’inizio degli anni sessanta in poi di lui non si parla. Noto a tutti, letto, antologizzato e recitato da attori come Vittorio Gassman, Arnoldo Foà, Giorgio Albertazzi, quasi all’improvviso il suo nome sparì.
Da liceale, fra i diciassette e i diciannove anni, avendolo scoperto grazie all’antologia Guanda curata da Carlo Bo e al libro di Hugo Friedrich sulla lirica moderna, ebbi per Lorca una specie di infatuazione. Senza neppure applicarmi e come contagiato dal suo eccezionale magnetismo, conoscevo a memoria almeno una ventina di sue poesie. Con Eliot, per me Lorca era allora la poesia moderna, inusitata e oscura per definizione. Ma la passione del poeta andaluso per le tradizioni orali, la poesia popolare e infantile, e il suo talento musicale (chitarra e pianoforte) davano ai suoi versi un’incisività percussiva che conquistava immediatamente la memoria. Lorca è stato per alcuni decenni un paradosso artistico pressoché unico: il più popolare dei poeti d’avanguardia, pur non avendo aderito a nessuna avanguardia. Il suo assassinio da parte dei franchisti di Granada all’inizio della guerra civile spagnola, nell’agosto del 1936, quando aveva trentotto anni e viveva un momento di produttività poetica e di successi teatrali straordinari, fece di lui uno dei simboli internazionali dell’odio per la cultura e per l’arte di cui poteva essere capace il fascismo in tutte le sue varianti. La forza di suggestione delle sue opere, tuttavia, non poteva certo essere attribuita alla sua morte così tragica e politicamente significativa. Come ha osservato in un suo libro recente il poeta e critico Luis Garcia Montero, oltre a essere uno degli esempi più tipici del modernismo europeo, Lorca non ha mai smesso di essere anche un poeta “romantico”: poeta che non astrae dalle sue passioni personali, non rinuncia all’amore per le tradizioni andaluse e non occulta la sua autobiografia, anche se la sottopone ai più audaci e sorprendenti processi di metamorfosi formale. I suoi artifici stilistici sono sia intellettualmente consapevoli e controllati che emotivamente incandescenti.
Il suo libro forse più importante e certamente più letto, Poeta en Nueva York, scritto fra il 1929 e il 1930 durante il suo soggiorno nella metropoli americana, è nello stesso tempo sfrenatamente surreale e dotato di una impetuosa, potente eloquenza nella denuncia della civiltà industriale e delle discriminazioni razziali. Di Lorca è stata ormai tradotta più o meno tutta l’opera. Ma ora l’occasione migliore per riscoprirlo e ricominciare a parlare di lui è la pubblicazione del Garcia Lorca di Gabriele Morelli, che è autore anche di monografie su poeti come Juan Larrea e i cileni Vicente Huidobro e Pablo Neruda.
Il libro di Morelli su Lorca è esauriente e appassionante. Nasce da un lavoro di ricerca durato decenni e questo gli permette di intrecciare con grande equilibrio biografia e analisi lettararia. I capitoli narrativamente più intensi sono i primi sull’infanzia e la giovinezza di Federico e l’ultimo sui mesi che precedono l’assurda, angosciosa e mai del tutto chiarita vicenda della sua improvvisa fucilazione nei pressi di Granada. Non fu mai antireligioso né comunista, come avrebbero voluto alcuni suoi amici, tra cui Rafael Alberti. Fu sempre ostile alle violenze e ai vandalismi nello scontro aperto fra destra e sinistra, dichiarando di appartenere a un solo partito: quello dei poveri. Oggi per parlare di Lorca e della sua importanza letteraria, credo comunque che sia utile fare a meno per un momento del suo mito e di ciò che ha rappresentato il suo assassinio nella guerra civile che dal 1936 al 1939 attirò in Spagna tanti intellettuali antifascisti (dai già famosi Malraux e Hemingway ai ben poco noti Orwell e Simone Weil). Furono anni in cui i più lucidi fra loro capirono, anche a proprie spese, che non bastava essere antifascisti, bisognava essere anche anticomunisti. Se dietro a Francisco Franco c’erano Mussolini e Hitler (gli aerei nazisti distrussero la città di Guernica), dietro l’antifascismo comunista c’era Stalin: e chi ubbidiva alle sue direttive si adoperò sia a diffamare che a perseguitare democratici, socialisti e anarchici.
Per capire lo scrittore Lorca, bisogna ricordare che come pochi altri egli contiene in sé lo spirito, il clima di due decenni decisivi del Novecento, gli anni venti delle grandi innovazioni formali (Joyce, Eliot, Breton) e gli anni trenta del populismo e dell’impegno politico (Brecht, Auden, Neruda e tanti altri). Lorca è poeta e drammaturgo andaluso ma anche artista cosmopolita nel suo interesse per tutte le tecniche d’avanguardia. Cerebrale e passionale, il suo sperimentalismo non è mai gratuito: le forme cambiano quando cambiano i temi. Innova con un’audacia impareggiabile, eppure riprende e riusa forme classiche come l’ottonario epico-lirico del romance, il sonetto erotico barocco, arrivando a tentare forme esotiche come quelle persiane della gazela e della casida.
Nel suo discorso del 1957 su Lirica e società, Theodor Adorno parla di «idiosincrasie dello spirito lirico nei confronti del predominio delle cose» e la interpreta come una «reazione alla reificazione del mondo e al dominio della merce sull’uomo». Una tale idiosincrasia, evidentissima in Lorca che sembra ispirato da una specie di animismo, diventa tema esplicitamente politico nelle sue poesie su New York, capitale del capitalismo. Ma c’è altro. Anche nell’estremo individualismo dei maggiori poeti lirici moderni, Adorno nota una «sotterranea corrente collettiva (...) una specie di trasfusione del collettivo nell’individuale». Nei suoi Tableaux parisiens, per esempio, Baudelaire sente prossimi a sé individui appartenenti alle masse più povere. Ma anche in Brecht e in Lorca, secondo Adorno, si avverte che la stessa espressione individuale sa trasmettere una «forza collettiva». Di fronte a un poeta come Lorca perfino Adorno riesce ad ammettere che a certe condizioni di eccellenza tecnica e di autenticità personale, il populismo ha un valore conoscitivo e di rivelazione.
A New York, dopo il crollo della Borsa di Wall Street nel ’29, Lorca trova che non c’è angoscia paragonabile a quella di un nero intravisto davanti a un albergo: un «grande re imprigionato dentro una divisa da portinaio». Può bastare questo per fargli sognare che New York e Wall Street siano invase e soffocate da una foresta di ortiche, lombrichi, liane, serpenti e muschio.
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