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Il nostro storico più tradotto

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170 anni di emilio gentile

Il nostro storico più tradotto

Le prime tracce di Emilio Gentile nella storia d’Italia sono riportate nel diario di Giuseppe Prezzolini. Il 20 agosto 1965, l’allora ottantatreenne fondatore della «Voce» annotava di aver conosciuto «un giovanissimo studente di liceo della provincia di Campobasso. Mi mandò un suo compito su Dante dandomi del tu! Gli risposi che poteva darmi del tu, del voi e del lei, non avrebbe cambiato nulla delle nostre relazioni». L’8 novembre, dopo aver pranzato con lui, il burbero Prezzolini confesserà di aver «concepito stima e simpatia» per quel volenteroso virgulto: destinato a diventare non soltanto suo «intimo amico e collaboratore», come ricorderà dodici anni più tardi, ma anche uno storico di fama internazionale, il nostro contemporaneista più tradotto nel mondo. Dagli studi sul «culto del littorio» a quelli sulle «religioni politiche», lo sguardo di Gentile ha aperto nuovi orizzonti storiografici e antropologici per comprendere la nostra inquietante modernità, spesso in balia di miti autodistruttivi. Senza dimenticare le sue ricerche di storia culturale della Grande Guerra e quelle, apripista, sul problema dell’Italia nazione difficile, avviate negli anni Ottanta, quando il tema era piuttosto negletto.

Prezzolini resterà una stella fissa nel pantheon di Gentile, tanto che il professore della Sapienza sta ancora lavorando, ormai da decenni, alla sua biografia “definitiva”, frutto di lunghe ricerche in archivi italiani ed esteri. Un tomo che coronerà le sue indagini sull’opera dell’intellettuale fiorentino, cui ha dedicato fra l’altro il libro d’esordio del ’72 e una fortunata antologia della «Voce», curata insieme allo stesso Prezzolini nel ’74. Sarebbe però fuorviante definire Gentile un prezzoliniano di stretta osservanza. Del «vociano» ha sempre ammirato l’intraprendenza culturale, l’indipendenza, «l’atteggiamento disperato verso la vita». Ma Prezzolini fu anche uno schietto antidemocratico (soprattutto nella seconda metà della sua esistenza, trascorsa quasi sempre all’estero) e un «antitaliano» un po’ inacidito. Il che non può certo dirsi di Gentile: autore di preoccupati volumi e interventi sullo sfilacciarsi del nostro sentimento nazionale e sulla fragilità degli istituti democratici.

Oltre a Prezzolini, gli altri due suoi grandi interlocutori sono stati Renzo De Felice (1929-96) e George L. Mosse (1918-99). Fu proprio grazie a Prezzolini se Gentile entrò in contatto con De Felice, il quale lo aiutò a muovere i primi passi nell’università, come studioso di storia contemporanea, dopo il primigenio entusiasmo per il medioevo. Quando sotto la sua ala protettiva il giovane storico pubblicò nel 1975 una monografia pionieristica sulle «origini dell’ideologia fascista» (ora nel catalogo del Mulino), il professore torinese Guido Quazza lo accusò di mirare «sostanzialmente alla riabilitazione del fascismo». Erano gli anni delle feroci polemiche fra «defeliciani» e «antidefeliciani». Questi ultimi in genere negavano al fascismo ogni profilo culturale e ideologico, dipingendolo come pura barbarie. Ma l’accusa di Quazza era davvero surreale, anche alla luce dei successivi libri sfornati dallo studioso molisano.

Se c’è infatti uno storico che abbia restituito un’immagine implacabile del fascismo, è stato proprio Gentile. Dalle sue pagine l’Italia del ventennio spicca come un Paese plasmato da un regime opprimente e totalitario, capace di permeare con la propria ideologia ogni minuscolo anfratto della società. Una prospettiva terrificante, per chiunque abbia a cuore l’autonomia dell’individuo, figlia dell’illuminismo. Gentile spinge il lettore a queste conclusioni senza esibire alcun moralismo, ma cercando di calarsi nel proprio oggetto di studio, ossia nel mondo mentale dei protagonisti di allora e nel loro disegno di forgiare un Uomo e uno Stato nuovi. Un progetto concreto, da lui ricostruito non soltanto nella liturgia, ma – va sottolineato – anche nella prassi quotidiana: violenta, soffocante, inesorabile. Con buona pace della vulgata dolciastra che, per usare le parole dello stesso Gentile, ha oggi «defascistizzato il fascismo», svuotandolo dei contenuti antidemocratici e razzisti.

A De Felice, «storico» e anche «personaggio», Gentile ha dedicato nel 2003 un denso volumetto, grato ma non agiografico. Se ci furono fra loro delle disparità (dalla freschezza di scrittura al giudizio sulla natura più o meno totalitaria del regime), queste non intaccarono la profonda stima reciproca. Gentile ha poi ritratto in una monografia del 2007 (Carocci) anche il suo terzo sodale, il grande storico tedesco naturalizzato statunitense Mosse, con cui intrattenne «una lunga amicizia intellettuale». Sarebbe tuttavia improprio circoscrivere Gentile a «erede» di Mosse e considerare Il culto del littorio (Laterza, 1993), il suo lavoro più iconico, una versione italiana del celebrato libro del tedesco, La nazionalizzazione delle masse (1974). Accomunati dalla curiosità per l’irrazionalismo politico e i suoi riti, i due studiosi hanno scelto un approccio diverso. Mosse più interessato ai risvolti culturali, Gentile attratto anche dalla dimensione politica e organizzativa (si vedano i suoi studi sul rapporto fra partito e Stato nel regime mussoliniano). Inoltre, Mosse e Gentile hanno affrontato contesti storici differenti. Il nazismo giunse al culmine di un processo secolare di nazionalizzazione delle masse, mentre il fascismo creò quasi ex novo «una religione laica incentrata sulla sacralità della nazione». È questo il succo dell’innovativa interpretazione di Gentile, suffragata da una ricca messe di reperti archivistici e iconografici. In un certo senso, la sua metodologia storiografica riflette una sorta di sintesi hegeliana fra De Felice (concentrato sui capillari spogli d’archivio) e Mosse (propenso ai grandi affreschi).

Per festeggiare i primi 70 anni del professore emerito della Sapienza, gli allievi hanno preparato una silloge di studi in suo onore, intitolata Il primato della politica nell’Italia del Novecento. Il XX fu il secolo della politica, ma fu anche il secolo in cui questo primato conobbe le sue degenerazioni più esiziali, come documentato dai lavori di Gentile. Ecco dunque alternarsi una serie di temi collaterali: la fortuna nell’Italia liberale del pensatore vittoriano Thomas Carlyle, poi rivendicato dal fascismo alla stregua di un proprio precursore (Lorenzo Benadusi); l’Istituto di Studi Romani sotto il regime (Donatello Aramini); le parole e i discorsi del fascismo (Alessandra Tarquini); i fasci italiani all’estero (Fabrizio Soriano); il culto di Palmiro Togliatti (Pierluigi Allotti) e il mito politico nella cultura della Dc (Paolo Acanfora). Non stupisca l’ampiezza dell’arco temporale. Come ci ha insegnato Gentile, il fascismo fu la manifestazione di un fenomeno ben più ampio, nel quale la passione politica non può essere ridotta soltanto a discorso o a ideologia, ma diventa un immaginario collettivo, replicabile in ambiti diversi. Per questo il culto di Togliatti rievoca quello del duce, mentre la sacralizzazione della politica fiorita sotto il regime littorio sarà rimasticata dalla cultura democristiana.

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