Cultura

La scrittura di uno scultore

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william trevor (1928-2016)

La scrittura di uno scultore

«Sono un narratore di storie. Mi siedo al tavolo e scrivo storie. Questo è quello che faccio». Così, in poche, lapidarie parole William Trevor spiegava il suo lavoro: niente psicologismi alle spalle, nessun retro pensiero, solo l’occhio aperto, vigile sulle vite, le più semplici, degli altri.

Ma dietro questa semplicità, quante cose! Dello scrittore più riservato e emblematico d’Irlanda, dove non viveva più dagli anni ’50, ci rimane adesso un percorso sgranato tra romanzi brevi e racconti (tutti dedicati alla moglie Jane), questi ultimi tra i prediletti da lui, che nella sintesi, nella brevità trovava la misura perfetta dentro cui inquadrare un mondo, più quello di provincia e di campagna che non di città, con un orecchio assoluto alle voci che lo popolavano. Leggere la fluida consequenzialità delle sue storie potrebbe generare l’equivoco che la scrittura sia un’arte facile, una mera registrazione, tutt’al più un riordino di materiali offerti dalla vita. È la seduzione della semplicità, tanto più insinuante e sottile quanto meno clamorose sono la trama e l’ordito del racconto: nel suo lungo percorso di scrittore Trevor ha portato in primo piano vite comuni, ha rappresentato volti comuni, ciascuno con un segno particolare però, un dolore, una rassegnazione, una rabbia, un desiderio.

Storie di tutti i giorni su cui si accende il riflettore della scrittura, senza abbagliare; la discrezione è stata il metro di un lavoro fatto di cautela e di coraggio insieme. Non è un caso che l’inizio della carriera artistica di Trevor fosse all’insegna della scultura, che abbandonò presto, ma in certo senso portandone un segno, un metodo: di necessità le figure escono piano piano dalla materia, si plasmano dalle mani dello scultore in un lavorio lento, che lascia pensare. Mi vengono in mente le considerazioni di Alberto Giacometti a proposito delle sue figure filiformi: dichiarò una volta di aver speso, e ancora stava spendendo!, una vita alla ricerca della figura compiuta, come non gli usciva ancora dalle mani. Mi domando se anche l’ex scultore Trevor non fosse alla ricerca della figura da scovare tra le tante; senonché ognuna delle tante dava un dettaglio utile, una traccia, e intanto, in questa ricerca, lo scrittore si lasciava coinvolgere nell’enigma che ogni volto comporta, a saperlo guardare con attenzione, e interpretava le tonalità che ogni voce esprime anche nella più banale delle osservazioni.

I temi delle sue narrazioni sono alti: l’amore, la vita, la morte, alti e così ovvi, così comuni! O dovremmo dire così universali. Nel tratteggiarli e interpretarne le tante declinazioni, Trevor si è mosso in equilibrio tra compassione e rigore, giocando di microscopio, in un lavoro chirurgico sull’anima, a partire da una considerazione, nascosta tra le righe di uno suoi racconti, L’eredità di Graillis, «Non aveva dato spiegazioni al notaio […] perché quello che c’era da spiegare era troppo poco, non troppo». In certo senso il dettaglio di questa frase è la cifra dei tanti caratteri che hanno percorso le storie di Trevor, dal famosissimo Viaggio di Felicia a Morte d’estate, o ai racconti raccolti in Notizie dall’Irlanda o Uomini d’Irlanda: meno è meglio.

E poi c’è la sua terra, rimasta tale anche a distanza, che si fa strada per piccoli, significativi segnali: mi è capitato di pensare che Trevor sia un veicolo essenziale per entrare in confidenza con la cultura e la società irlandese, e viceversa! Un viaggio in Irlanda, per quanto fatto da turisti distratti, non potrebbe che rendere più chiare le ragioni dello stile di questo autore: è nato e cresciuto in una natura che alterna la dolcezza alle burrasche, che si spiana nella regione centrale e si impenna nella costa occidentale in paesaggi giustamente definiti impressive dalle guide turistiche del luogo. Nell’aggettivo, che traduciamo facilmente con impressionante è contemplato anche un accenno alla solennità, ed è l’elemento che, sottovoce, nel tratteggio di figure minori e comuni, Trevor ci ha insegnato a cercare, come nei paesaggi della sua terra.

La sua è stata la vita di un uomo tranquillo, dopo un’infanzia e adolescenza in movimento, seguendo gli spostamenti del padre, dirigente di banca, e cambiando ben tredici scuole, in mezzo alla tempestosa relazione dei genitori, che si sarebbero poi separati. Eppure lui stesso raccontava in modo singolarmente positivo questi anni di formazione; quello che sarebbe di norma un trauma da destabilizzazione, divenne per lui un privilegiato punto di osservazione, quasi fossero stati, quei cambi repentini di luoghi e volti, il primo assaggio della varietà umana, nella cui descrizione si sarebbe cimentato, scrivendo sempre e solo su fogli blu, con meticoloso accanimento, seguendo i fili della ragnatela che avvolge le relazioni umane. E allora torniamo alle considerazioni fatte prima su di lui, sullo stile della sua scrittura da cui respingeva osservazioni e deduzioni di carattere eccessivamente analitico: aveva una grande stima del tennista Federer e, in merito alla qualità del suo gioco, soleva dire che era inutile domandarsi e domandargli perché quel colpo, perché quel rovescio, l’aveva fatto e basta. Così era del suo scrivere: sono un narratore di storie…, ecco, questo è quanto, e di questo gli siamo grati.

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