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“Blue & Lonesome”: gli Stones tornano nella Chicago di…

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L’album “Blue & Lonesome”

“Blue & Lonesome”: gli Stones tornano nella Chicago di Muddy Waters

Avete presente «Cadillac Records»? Sì, proprio il film di Darnell Martin che ripercorre la vicenda della leggendaria Chess Records, etichetta che diede forma di microsolco alla scena blues di Chicago. Memorabile la sequenza in cui cinque smilzi ragazzi inglesi bussano al citofono del padrone di casa Leonard Chess e gli chiedono l'incommensurabile onore di infilare i propri jack negli amplificatori di Muddy Waters e Howlin' Wolf, maestri dai cui 45 giri avevano imparato praticamente tutto quello che c'era da sapere sulla musica e la vita.
Storia vera, risalente al giugno 1964, che portò a un Ep intitolato «Five by five» con dentro più che altro cover di blues. I «cinque» in questione erano ovviamente Bill Wyman, Charlie Watts, Brian Jones, Mick Jagger e Keith Richards, ossia la prima incarnazione ufficiale dei Rolling Stones che, più di cinquant'anni, 250 milioni di dischi venduti e tre rimpasti di formazione dopo, hanno deciso di «riportare tutto a casa», sciacquare (ancora una volta) i panni nel lago Michigan, tornare all'essenzialità degli esordi con la consapevolezza della vecchiaia.

Il risultato è questo «Blue & Lonesome» (Polydor Records), album che raccoglie 12 standard blues registrato a dicembre dell'anno scorso in soli tre giorni ai British Grove Studios di West London, a quattro passi da Richmond ed Eel Pie Island, dove i Glimmer Twins partirono mezzo secolo fa, nei peggio bar della City. Proponendo questa roba qui e, per giunta, prendendo nome da una hit del vecchio Muddy. Sia chiaro un aspetto fondamentale, non è un disco di blues e basta: è un disco di Chicago blues, perché il producer Don Was, affiancando la premiata ditta Jagger & Richards, chissà come è riuscito a tirare fuori quel particolarissimo mood elettrico che fece grandi le incisioni di Etta James, Koko Taylor e Little Walter. Eggià: il piccolo, pazzo Walter, dio e diavolo dell'armonica diatonica che ti sparava un colpo di rivoltella solo perché magari gli facevi concorrenza sleale: tra gli artisti Chess stavolta è lui il principale riferimento degli Stones, tanto che Jagger sfoggia soli di armonica con una frequenza sconosciuta ai precedenti lavori del gruppo. C'è «Just your fool» con il suo riff ossessivo-compulsivo, la title-track con Keith e Ronnie Wood che gareggiano in drammatizzazioni chitarristiche, la tiratissima «I gotta go», forse la prova più spericolata di Mick armonicista, «Hate to see you go» che con la sua struttura ritmica ha posto le basi per tanto hard rock blues oriented.

Eric Clapton, altro specialista del genere che, in quei giorni, registrava nella stanza a fianco, si è gentilmente prestato, Stratocaster in mano, per «Everybody knows about my good thing» e «I can't quit you baby», pezzo del corpus di Willie Dixon portato al successo da Otis Rush che negli anni Settanta diventerà un must delle esibizioni dal vivo dei Led Zeppelin. La versione stonesiana è tutta un'altra roba: meno enfatica, muscolare, spettacolare. Essenziale come il modello di riferimento negli incroci di tonica, sottodominante, dominante. Quei tre accordi da cui tutto discende che, secondo la leggenda, il padre fondatore Robert Johnson ottenne dal diavolo in cambio dell'anima. Vuoi vedere che quel diavolo non era altri che Keith in un'altra vita?

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