
Voglio fare l’elogio dell’alfabeto. Non della letteratura. Voglio elogiare il semplice fatto di poter esprimere i propri sentimenti giocando con ventisei lucciole che rischiarano le pagine, anche le meno felici. Non immaginiamo neppure il reale potere di queste lettere apparentemente così banali e insignificanti cui, dopo la dura fase dell’apprendimento, non facciamo più caso. Queste piccole lucciole ci consolano dei mali del mondo, a volte riescono a liberarci da angosce che potrebbero trasformarsi in incubi: quando ci svegliamo nel cuore della notte in un bagno di sudore, ci basta buttare giù la lista delle cose da fare il giorno dopo per sentirci subito più leggeri. Da millenni le lettere dell’alfabeto, che variano da paese a paese per numero e forma, raccontano le nostre emozioni, traducono i nostri pensieri, ci permettono di esprimere a distanza sentimenti a cui non oseremmo mai dare voce in presenza del diretto interessato. Non solo, ma riescono a creare un silenzio rigenerante in un mondo a volte troppo chiassoso. Provate a immaginare il rumore assordante che sentiremmo in questo istante se non ci fosse un buon numero di persone intente a leggere o a scrivere. Entrambe le attività richiedono un silenzio fecondo o fruttuoso, comunque lo si voglia definire. Le lettere ci tornano utili nella vita di tutti i giorni e, sebbene a volte le costringiamo a svolgere compiti degradanti, per esempio troncando le parole o producendo frasi prive di senso, loro rimangono fresche e leggiadre come fiori appena sbocciati. Perfino quando ogni singola parola di una frase è sbagliata, le lettere restano intatte. E, come il classico tubino nero, non passano mai di moda. La prima volta che mi è capitato di vederle al di fuori dei libri o della lavagna è stato sul viso rugoso di mia nonna. Mi divertivo a cercarle guardandola da vicinissimo. Le sue rughe sottili, intrecciandosi, formavano lettere finemente cesellate. Alcune maiuscole, come la A o la E, altre maiuscole e minuscole come la V, la X o la T. La W era rara, ma gliene ho trovata una sulla nuca. Nessun viso è stato mai letto con più attenzione. A me, che passo la vita a leggere e scrivere, a volte capita ancora oggi di vedere apparire sulla pagina il viso dolcissimo di mia nonna che mi esorta a maneggiare le lettere con garbo. Allora mi sembra di risentire il profumo del caffè che lei sorseggiava mentre io ero impegnato in quella straordinaria caccia all’alfabeto.
Non sono mai riuscito a separare la lettura dalla scrittura, né il viaggio da queste due attività. Chi legge lo fa per evadere dal mondo in cui si trova, e lo stesso vale per chi scrive. E il posto in cui arriva è l’unico in cui si possa andare senza bisogno di visti e passaporti. È un posto universale che appartiene solo ai lettori e agli scrittori, ossia a chi è capace di seguire un’idea o uno sconosciuto senza preoccuparsi di che tempo farà né della destinazione finale. Chi non sa leggere ma ama sognare si nutre dei racconti popolari, che a volte sono perfino più potenti del testo scritto, perché sono stati limati dalle tante voci che li hanno trasmessi fino a noi. E comunque quei racconti della sera non sono molto diversi dai romanzi che si trovano nelle librerie.
In questo elogio, ho cercato di risalire alle origini, un po’ come un salmone che risale la corrente fino alle sorgenti del fiume, ho cercato di ritrovare il gusto che all’inizio aveva per me la scrittura. Era fatta di lettere d’amore. Per scrivere occorrono due cose: un bisogno impellente e un segreto. L’amore, che è il sentimento più forte, in gran parte del mondo è anche il più proibito. Non solo, ma chi parla d’amore è allergico alle sfumature. Ha bisogno di usare le parole più pure, più nude. Quanto più una lettera è bella, tanto meno è efficace, perché in realtà quello che ciascuno vuole sentirsi dire dall’altro è un semplice «Ti amo». Chiunque riesca a scrivere un libro che contiene in sé l’ardore di quelle parole è un poeta. Tanto è vero che le nostre prime lettere d’amore spesso sono copiate proprio dai poeti. Non ricordo bene quando ho smesso di osservare il viso della mia amata per cominciare a guardarmi intorno. Per cominciare a guardare tutti quelli che avevo vicino e che non avevo mai notato, preso com’ero dalla mia passione. Zie, cugini, vicini di casa e perfino sconosciuti sembravano uscire di colpo dalla nebbia indistinta dell’indifferenza. Finalmente li vedevo, e allora mi è venuta voglia di ritrarli. Che varietà di caratteri, che abbondanza di materiale per un giovane pittore di Alphabetville. Ancora oggi sui due piatti della bilancia ci sono le stesse cose: da un lato il viso della donna amata, dall’altro il resto del mondo. Chi peserà di più? Le uniche a sapere come andrà a finire sono le minuscole lettere dell’alfabeto. Continuano a guizzare cercando di formare parole, frasi, pagine e libri, di cui solo apparentemente siamo noi gli autori.
(traduzione di Francesca Scala)
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