Cultura

Scherzetto di un narratore preciso

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DOMENICO STARNONE

Scherzetto di un narratore preciso

Domenico Starnone
Domenico Starnone

Ci sono casi in cui la critica militante fatica a verificare l’immagine consolidata di scrittori affermatisi da tempo. È naturale affezionarsi a un esordio incisivo, e ancor più a un’identità riconoscibile, che è facile ridurre a un marchio; però è altrettanto naturale che gli scrittori cambino, si rinnovino, e (nei migliori dei casi) si attraversino, scoprendosi a distanza di anni anche molto lontani dal punto da cui erano partiti.

Per alcuni addetti ai lavori Aldo Busi rimane l’autore del Seminario sulla gioventù, Niccolò Ammaniti e Aldo Nove sono ancora pulp, Domenico Starnone resta quello di Ex cattedra - uno scrittore “minore”, simpatico e bonario, legato a un mondo narrativo circoscritto (o peggio ancora, da qualche anno a questa parte, “il marito di Elena Ferrante”). Eppure Busi ha messo insieme, dopo il Seminario, altri tre o quattro romanzi di valore; Ammaniti è diventato un narratore “da camera”; Aldo Nove, nelle sue varie incarnazioni, addirittura un poeta mistico. Quanto a Starnone, non c’è forse scrittore italiano che negli ultimi quindici anni sia cambiato e cresciuto più di lui. Pare arrivato il momento di ammettere che Starnone è oggi uno dei nostri scrittori più profondi e più bravi; e anche, nonostante le apparenze, dei più aggressivi e spietati, cioè dei più autenticamente romanzieri. La cattiveria di Starnone è infatti quella tipica del novel: consiste nell’identificare, cogliendole in situazioni banali e quotidiane, le magagne proprie e altrui - quelle di cui non ci rendiamo conto, che non riconosciamo come tali o che tendiamo ad assolvere, magari attraverso il ricorso inconscio o interessato a qualche forma di falsa coscienza, o di pigrizia intellettuale.

I protagonisti di Starnone sono infatti quasi sempre “eroi che pensano” - più o meno, un po’ invecchiati e malandati, i borghesi colti e di sinistra, insomma i professori suoi coetanei intorno a cui ruotavano i racconti degli esordi. Ma quei professori così novecenteschi sono arrivati nel Duemila, hanno fatto i conti con la società dello spettacolo, con i nuovi media, con l’ipermodernità; sono diventati editori, sceneggiatori, artisti; ormai in odore di pensione, si trovano alle prese con una vecchiaia complicata, mentre il mondo intorno scoppia. L’impatto col nuovo li ha promossi socialmente, riconoscendoli nel ruolo di classe dirigente, ma non li ha migliorati, anzi li ha resi più fragili: meno vincoli e meno doveri, ma più sensi di colpa, più rimorsi, più fantasmi del passato. Così, l’ironia e la satira di un tempo, senza scomparire del tutto, hanno lasciato il posto, nei libri di Starnone, a registri più drammatici, a bilanci meno indulgenti. Ne è scaturita una visione del mondo acuta e grave, e insieme una scrittura più organica, elegante e strutturata. Con una sistematicità e una coerenza che hanno pochi eguali nel nostro panorama letterario Starnone sta provando a raccontare - in diretta, e attraverso un vero e proprio ciclo romanzesco - un pezzo di storia del ceto intellettuale italiano; la sua mutazione, la sua autoanalisi, il suo sfarinamento.

Scherzetto, appena uscito per Einaudi, non è che l’ultima tessera di questo mosaico antropologico e sociale in progress inaugurato nel Duemila, ai tempi di Via Gemito. Il protagonista stavolta è un anziano disegnatore di origine napoletana, di nome Daniele Mallarico: una volta artista di successo, ora un po’ sul viale del tramonto, avrebbe il compito di starsene tranquillo nella sua casa milanese e finire di illustrare per un giovane e antipatico editore un racconto di fantasmi di Henry James, The Jolly Corner: storia di un uomo che dopo molti anni di assenza torna nella sua vecchia casa di New York per trovarvi un fantasma che somiglia a quello che sarebbe potuto diventare se non fosse mai partito. Ma la figlia di Daniele, che vive a Napoli con la famiglia, deve assentarsi per il fine settimana; chiede allora al vecchio nonno di occuparsi in sua assenza del nipotino di quattro anni, raggiungendola nell’appartamento in cui vive (lo stesso in cui Daniele trascorse la sua infanzia).

Arrivato a Napoli, il protagonista si sente subito accerchiato da due forze oscure. La prima è rappresentata dal passato napoletano, dai ricordi familiari che infestano la casa e il quartiere in cui è costretto a ritornare dopo tanto tempo e dopo tanti tentativi di rimuovere («tutta la mia infanzia, tutta l’adolescenza erano state uno sforzo permanente per trovare il modo di rompere la catena della discendenza»). La seconda è proprio il nipotino Mario - uno dei ritratti infantili più riusciti e maliziosi della nostra narrativa recente, da fare impallidire gli stucchevoli, buonissimi, detestabili bambini cui ci sta abituando l’arte di intrattenimento, e sempre più spesso anche romanzi con molte pretese artistiche e poca fantasia. Adorabile e sgradevole, selvaggio e giudizioso, «di materiale estraneo» agli occhi del nonno, Mario è un enigma nel cuore del racconto. Maestro di ambiguità, rovescia il corrente stereotipo del bambino-vittima-degli-adulti rivelandosi al contrario manipolatore raffinato, a volte benevolo, a volte decisamente ostile («mi introdusse in un mondo di fantasia, già tutto organizzato, dentro il quale dovevo fare esattamente ciò che diceva lui»). Di scherzetto in scherzetto, il nonno e il nipotino smettono progressivamente di giocare, e invece cominciano a combattere. In palio c’è la conquista di una verità definitiva. Ed è Mario a mettere a segno i colpi decisivi, prima simbolicamente («Gli presi il foglio, lo esaminai. Mi sentii come se avessi ricevuto uno spintone così violento da mandarmi dal centro ai bordi del mondo»), poi materialmente, in un finale inatteso e sorprendente in cui Starnone insegue lo schema di Henry James inoltrandosi sul suo terreno, che è quello del racconto del terrore.

Come in tutti gli ultimi romanzi di Starnone, anche in Scherzetto è presente una struttura a strati, uno dei quali è rappresentato dalla riflessione sul romanzo stesso, e più in generale sui limiti dell’arte (in questo caso la pittura: tra l’altro l’appendice a Scherzetto è integrata dai disegni di Dario Maglionico) in una cultura dominata dall’infantilismo delle immagini e dal culto multimediale della fiction. Ma le questioni teoriche, per fortuna, non prendono mai il sopravvento, non restano asettiche, si mescolano a concreti problemi esistenziali.

Starnone riesce a far convivere il piacere sofisticato dei metadiscorsi con quello elementare del racconto ben congegnato, con tanto di suspense e colpi di scena. Ciò non toglie che, dietro l’ingranaggio della trama (o delle trame), i suoi libri pullulino di collegamenti e rinvii ad altra letteratura. In questo caso, certo, a The Jolly Corner, di cui Scherzetto si diverte a ricalcare situazioni narrative (un personaggio che ritorna nella sua casa d’infanzia e affronta il proprio “doppio”), oggetti poetici (la porta chiusa, la casa stregata) e perfino la cornice di genere (il racconto di fantasmi). Forse anche quel piccolo capolavoro che è L’ospite di Lalla Romano ha fornito qualche spunto (a cominciare dall’idea del bambino affidato a un nonno intellettuale). Ma non meno numerosi sono i rimandi ad altri libri dello stesso Starnone. Daniele ha un passato da pittore, come il padre di Via Gemito, e un presente al servizio dell’industria culturale, come i vecchi eroi di Fare scene e Lacci; ha un problema col dialetto, e con la violenza arcaica del passato, come il protagonista della Autobiografia erotica di Aristide Gambía; è reduce da un intervento in ospedale, come il narratore di Spavento, e soffre di mal di testa, come il padre e il figlio di Lacci; è in crisi creativa, come gli scrittori di Labilità e di Prima esecuzione. Nel ciclo che Starnone sta scrivendo, temi, forme e personaggi si intrecciano, rimano e si scambiano le parti: è uno scrittore con un progetto ben preciso, e questo progetto parla di lui e di noi.

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