Cultura

Il nulla sul termosifone

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Musica

Il nulla sul termosifone

  • –Renato Palazzi

Credo cheIl cielo non è un fondale, la nuova creazione di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, che ha debuttato a Losanna per poi approdare al festival Romaeuropa, sia per molti versi uno spettacolo di transizione. Ho l’impressione che i due, dopo avere colto un vasto successo internazionale con Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, avessero necessità – ma si tratta di una mia convinzione del tutto personale – di cambiare parzialmente strada, di sottrarsi ai rischi di una formula stabilita per provare a cercare altri sbocchi, anche se non ancora pienamente messi a fuoco.

Si direbbe dunque che, più o meno consapevolmente, Deflorian-Tagliarini stiano procedendo a smontare certe strutture portanti che avevano caratterizzato i loro lavori precedenti. Mentre Rewind partiva da una rievocazione – seppure pretestuosa - di Café Müller di Pina Bausch, assunto quale emblema di un’epoca e di una generazione, mentre il dittico composto da Reality e da rzeczy/cose si appoggiava agli ossessivi diari della polacca Janina Turek, e Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni ruotava attorno a un falso episodio di cronaca inventato dallo scrittore greco Petros Markaris, Il cielo non è un fondale sembra rinunciare a qualunque filo conduttore drammaturgico per puntare su un puro flusso interiore, in qualche modo “senza rete”.

Se l’approccio alle quattro pensionate greche che attuavano uno struggente suicidio collettivo in Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni era stato inoltre il laboratorio per uno straordinario esercizio “a vista” di immedesimazione in assenza del personaggio, o di elaborazione del personaggio in assenza di interpretazione, qui tutte queste procedure tecniche post-stanislavskiane si danno in un certo senso per acquisite: ci sono, agiscono in profondità, svolgono un ruolo determinante nel linguaggio scenico di Deflorian e Tagliarini, ma non occorre più metterle in mostra, come se avessero esaurito la loro funzione dimostrativa.

Il tema da cui il copione prende le mosse è il rapporto fra l’individuo e il paesaggio, fra l’interiorità del soggetto e l’ambiente nel quale essa si colloca. Ma questo spunto iniziale immediatamente si attenua, cede il passo ad altre suggestioni: a far riflettere il duo è principalmente il problema della comunicazione, la comunicazione fra “noi” e “loro”, fra noi e quelle figure sfocate che popolano il nostro universo urbano, la vagabonda che dorme sulla panchina in mezzo a tutte le sue cose, il venditore di rose indiano, il transessuale brasiliano con un occhio pesto, persino la commessa del supermarket. È l’imbarazzo, la difficoltà di quella comunicazione per lo più mancata o fasulla.

Ovviamente Deflorian e Tagliarini non fanno un teatro civile, ciò che hanno a cuore non è l’analisi dell’emarginazione, o la denuncia di un atteggiamento discriminatorio: nella loro scarna messinscena i disagi di questa umanità trascurata, sommersa si mescolano impercettibilmente ai loro stessi problemi, l’incidente stradale che ha interrotto la carriera di danzatore di lui, il periodo in cui lei serviva in un locale. E la dimessa realtà in cui avvengono questi incontri si intreccia a sogni, visioni, segreti turbamenti, soprassalti introspettivi al centro dei quali c’è sempre la domanda «chi sono loro per me?» o «chi sono io per loro?», dunque qual è il mio posto nel mondo.

Colpisce, in questa discesa nelle pieghe di una scomoda auto-coscienza, la consumata abilità compositiva, ormai prossima al virtuosismo, con cui viene sviluppata una scrittura «senza trama e senza finale», dall’andamento quasi cechoviano. Allo spettacolo, a mio avviso, manca ancora qualcosa, soprattutto per quanto riguarda i contributi degli altri due performer, la cantante Monica Demuru e il giovane Francesco Alberici, che dovranno trovare una maggiore integrazione coi toni vaghi, allusivi dei due attori-autori, bravissimi nel rivolgersi direttamente alla platea con quel loro parlare di tutto e di nulla. Ma l’ingegnoso finale, in cui lo spazio spoglio si riempie di vecchi termosifoni di ghisa, memoria di un accogliente tepore domestico, metafora di un ritrovato rapporto con se stessi, ha una forza poetica devastante, che equivale davvero a un’intera trama narrativa.

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Il cielo non è un fondale
di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, visto a Roma, al Teatro India