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Marina Abramovic, i miei 70 anni di performance con il corpo e il dolore

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l’intervista con ft

Marina Abramovic, i miei 70 anni di performance con il corpo e il dolore

Belgrado, primi anni 70. Una giovane donna esce dall’appartamento cavernoso nel quale vive insieme alla madre. Si dirige verso il cuore della scena artistica underground della sua città, dove dà vita alle sue performance. Da quelle parti è già molto conosciuta. Fa quello che fa – si tagliuzza il corpo, siede per ore in agonia, si brucia o si asfissia da sola, invita perfetti sconosciuti a umiliarla, spinge la propria resistenza al di là di ogni limite. Il pubblico, circoscritto, applaude incantato. Poi ritorna a casa di corsa, preoccupata che scatti il suo coprifuoco delle 22: se è in ritardo, la madre la picchia fino a farla sanguinare. La ragazza ha 29 anni.

Leggere nel suo libro di memorie «Walk Through Walls», pubblicato di recente, storie simili sulla prima parte della vita dell’acclamata artista Marina Abramovic, esperta in performance estreme dal vivo, mi mette in agitazione alla sola idea di avere un appuntamento a pranzo con lei. Ho trascorso alcuni giorni immersa nella storia straordinariamente feroce di una persona che, nel processo creativo della sua arte immateriale, trasformativa e basata sul tempo, si è inflitta più torture fisiche e psicologiche di quante io ne riesca a immaginare.

È pericolosa anche quando indossa i vestiti e i coltelli sono riposti lontano: nel 2010 la tanto decantata performance dell’artista non prevedeva nulla più che starsene seduta su una sedia e invitare perfetti sconosciuti a sedersi in silenzio di fronte a lei, per fissare per un bel po’ di tempo i suoi occhi immobili. In tre mesi circa 750mila persone si sono messe in fila – in qualche caso notte e giorno, ininterrottamente – per prendere parte in questo modo alla sua performance «The Artist is Present», allestita presso il Museo di Arte Moderna di New York. Per l’intensità dell’esperienza vissuta, molti di loro ne sono usciti con le lacrime agli occhi.

Forza, sei una professionista, mi sono detta mentre mi dirigevo alla «En Japanese Brasserie» in Hudson Street nel West Village. Sei adulta. Niente lacrime.

Le cose, di fatto, vanno in maniera completamente diversa. Mentre mi accomodo dietro una vetrata illuminata dal sole in un tranquillo sabato newyorchese, di fronte a lineamenti poco più grandi ma altrettanto espressivi di quelli che conosco bene, avendoli osservati di inquadratura in inquadratura nelle sue performance – il viso liscio e il naso sporgente, gli occhi scuri penetranti ma dolcissimi, i lunghi capelli corvini, il fendente di una bocca rossa brillante e carnosa sopra il golfino nero più semplice che si possa immaginare – mi sento immediatamente rincuorata nei confronti di una presenza cordiale, che non potrebbe essere più distante dalle spaventose immagini dei suoi filmati.

«Deve assolutamente assaggiare un po’ di questo - dice di primo acchito, spingendo verso di me una ciotola di tofu morbido e tiepido che le sta davanti -. Lo preparano ogni mattina ed è delizioso».

Lo è davvero. È un po’ come mangiare una nuvola. È un comfort food fatto di sottile aria fragrante. Sta bevendo tè alla lavanda – quando lo dice, pronuncia lavANDa – e così quando il cameriere gentilmente compare alle mie spalle lo ordino anche io. È disgustoso. Mi sembra di bere acqua saponata. Dopo un piccolo sorso, lo lascio tranquillamente lì e ci rinuncio.

Chiacchieriamo un po’ e poi studiamo il menu. «Ordini pure anche per me - le dico -. Mi piace tutto». (Mentalmente, però, escludo il tè alla lavanda.). Quando lei mi chiede se preferisco carne o pesce, tuttavia, ho un repentino sussulto di ripugnanza: non riesco a fermare il flashback, violento e intenso, che mi ricorda l’unica altra volta che ho visto Marina Abramovic in carne e ossa. Lo dico proprio in senso letterale: accadde alla Biennale di Venezia del 1997, dove la sua performance che vinse il Leone d’Oro prevedeva che lei stesse seduta in una torrida cantina su una pila di ossa bovine insanguinate, maleodoranti, piene di vermi, e facesse il possibile per pulirle e togliere da esse il sangue rappreso con uno spazzolone. Ora dopo ora, giorno dopo giorno. Un compito degno delle stalle di Augia, secondo lei un commento sulla guerra raccapricciante che divampava nel suo paese natale, ma anche un test personale di resistenza che ha lasciato noi spettatori semi-perplessi, semi-nauseati, molto desiderosi di una boccata di aria pulita.

«Preferisco pesce, grazie». Non mi viene in mente nessuna performance particolarmente raccapricciante nella quale lei si sia rapportata a un pesce, anche se probabilmente c’è. In ogni caso, dentro di me spero che ordini merluzzo.

“Ora che ho quasi 70 anni, voglio soltanto essere esilarante. E raccontare barzellette. Nel mio paese le barzellette parlano sempre di sopravvivenza

 

Ordina proprio quello, e poi parliamo di cibo come una coppia di casalinghe qualsiasi. Proprio come fanno le donne di mezza età attente al girovita, ordiniamo soltanto due ciotole di miso – perché no? – e un’unica porzione di riso da dividere. È sufficiente. Naturalmente, lei è un’habitué di questo ristorante che si trova vicino alla sua casa newyorchese, e accanto al merluzzo si materializza un piatto a tinte vivaci di trota di mare, offerto con i complimenti dal locale. Il merluzzo è buono come speravo che fosse, ma i grassi pezzetti di filetto della trota di mare sono deliziosi, sublimi, delicati, un equilibrio perfetto e armonico condito dal sapore pungente del peperoncino e dall’inaspettata presenza dell’aglio che sembra quasi riecheggiare tutta l’intensità della personalità di colei che mi siede di fronte. La conoscono molto bene, mi vien fatto di pensare.

«Ora che ho quasi 70 anni – SETTANTA! – voglio soltanto essere esilarante. E raccontare barzellette. Nel mio paese le barzellette parlano sempre di sopravvivenza. Sono pesanti», dice. Me ne racconta una, molto insulsa.
Mi sembra quasi di vederci doppio, come se guardassi un film con un paio di occhiali 3D da quattro soldi. Questa donna cordiale e interessante chiacchiera con me come se fossimo amiche di vecchia data.

“Avevo sperimentato la libertà assoluta. Avevo percepito il mio corpo senza limiti. Avevo provato che quel dolore non aveva importanza. Avevo trovato il mio mezzo espressivo”

 

Nella mia testa c’è il vivo ricordo di un brano del suo libro nel quale descrive una sua performance, una variazione del gioco slavo della bottiglia: distendi la mano sul tavolo con le dita ben allargate, con un coltello infliggi una pugnalata tra un dito e l’altro, sul tavolo, sempre più velocemente, e ogni volta che ti tagli bevi di nuovo, così ti ubriachi sempre di più e ti ferisci sempre di più. La versione ancora più estrema studiata da Abramovic prevedeva registrazioni dei suoi urli di dolore e fogli di carta chiazzati di sangue. La sua descrizione era seguita nel libro da qualcosa che potrebbe fungere benissimo da dichiarazione d’intenti della sua intera opera artistica: «Avevo sperimentato la libertà assoluta, avevo percepito il mio corpo senza limiti, senza confini. Avevo provato che quel dolore non aveva importanza, che niente aveva importanza. E questo mi ha avvelenata. È stato in quel preciso istante che ho capito di aver trovato il mio mezzo espressivo. Nessun dipinto, nessun oggetto da realizzare avrebbe potuto darmi quel genere di sensazione che sapevo di voler rivivere. Ancora e ancora e ancora».

A nessuno psichiatra occorrerebbe una descrizione più eloquente di questa per pervenire alla diagnosi certa di masochismo. All’improvviso, però, la cordiale, amichevole e loquace Abramovic, seduta davanti a me al sole, mi chiede: «Prendiamo un dolce? Qui fanno una squisita panna cotta».

Con la sua voce ruvida dal forte accento prosegue: «Quando avrò 70 anni voglio divertirmi ogni giorno, come se fosse un dono dal cielo. Perché per me è stata dura, talvolta molto, anche se ho imparato tanto».

“Voglio divertirmi ogni giorno, come se fosse un dono dal cielo. Perché per me è stata dura, talvolta molto, anche se ho imparato tanto”

 

Non posso esimermi dal farle presente che per di più è stata lei stessa a spingere le cose sempre oltre, arrivando a vivere esperienze estremamente dure. Inutile dire che sto pensando alle esperienze estreme della sua disciplina, della sua resistenza e della sua privazione che costituiscono la base stessa delle sue opere trasgressive e trasformative. E penso anche alla sua idea per la quale questo tipo di arte potrebbe avere la meglio sulle esigenze del corpo e quindi, in definitiva, trascendere il tempo.

Mi parli della forza di volontà, le chiedo.

All’improvviso si fa seria, e con un senso di urgenza irrefrenabile risponde: «È estremamente importante uscire dalla propria comfort zone, per conoscersi fino in fondo. È così che si scopre il nuovo Io. Il fatto è che io ho voluto anche essere di ispirazione agli altri. Volevo far capire che “se posso farlo io, lo puoi fare anche tu, sei tu l’unico padrone del tuo destino”. E lo volevo dire soprattutto alle donne: “Smettila di sentirti in colpa”, cosa che noi donne facciamo così bene. “Smettila di fare la vittima”».

Lancio l’idea che lo stile diretto del suo libro – quasi una confessione che si è avvalsa del lavoro da ghostwriter dello scrittore americano James Kaplan – di sicuro sarà di ispirazione per le donne più giovani. Ma le recensioni che ha avuto hanno sicuramente toccato un nervo scoperto.

«Pochi giorni fa mi sono svegliata, ho letto il Guardian e in particolare una recensione secondo la quale il mio lavoro è schietto, meritevole di nota. Poi ho letto il New York Times che diceva esattamente il contrario. Santo cielo… l’ha letto anche lei? Quel tipo ha detto che sono presuntuosa, scioccante e masochista. Assolutamente presuntuosa e falsa. La mia vita è sempre stata bollente o gelida, mai tiepida. Mentre quei due articoli erano proprio tiepidi, una via di mezzo».

«Nel mio libro ho cercato di essere più diretta possibile, perché penso che sia molto importante non provare rabbia, non giudicare, ripensare al mio passato – perché si tratta di una sorta di memoir – e vedere come è stato. Cinque anni fa per me sarebbe stato troppo difficile farlo: il mio secondo marito mi ha veramente spezzato il cuore, ma ho dovuto affrontare la cosa. E adesso è il momento giusto».

“Essere sola – lo ammette candidamente: lei ha preferito il lavoro alla maternità e ha avuto tre aborti – le fa pensare a un futuro solitario: mi preparo all’ultima fase della vita ”

 

La fine del suo matrimonio con l’artista italiano Paolo Canevari ha segnato un altro triste momento nella storia della sua vita, e il suo volto si offusca ancora quando ne parla. Essere sola – lo ammette candidamente: lei ha preferito il lavoro alla maternità e ha avuto tre aborti – le fa pensare a un futuro solitario. Sa, è l’ultima fase della vita e bisogna prepararsi. È da quando ho 17 anni che affronto tutti i giorni l’idea della morte. Questo ti aiuta a capire che cosa conta davvero. Che quel che accade adesso accade adesso e basta».

Siamo interrotte dall’arrivo della panna cotta sormontata da una mousse di castagne, tremolante e zuccherosa. È evidente che i dolci le piacciono. Molto. Del resto non c’è tanto da stupirsi, visto che in una delle sue performance mangiò un chilo di miele con un cucchiaino d’argento. Durante le due ore che le ci vollero per ultimare quella performance, oltre a ciò si sdraiò nuda su una croce fatta di cubi di ghiaccio e si incise una stella a cinque punte sulla pancia con la lama di un rasoio.

Naturalmente, mi piacerebbe chiederle della pancia e delle cicatrici, e di tutte le ferite e di tutte le altre torture alle quali ha sottoposto il suo corpo nel corso degli anni. Ma l’atmosfera mi sembra troppo allegra per parlare di cose del genere, e quindi le dico: «Lei ha una pelle bellissima». Il che è proprio vero: ha un viso di decine d’anni più giovane rispetto alla sua età biologica.

«Non ho mai bevuto alcolici. E le droghe non mi hanno mai interessato. Diciamo che ho avuto altre forme di…»

«Estremismo?», suggerisco io.

Sorride e poi mi racconta dei ritiri spirituali lunghi un mese che fa in India una o due volte l’anno, digiunando per più giorni di fila. Ricordo che gli studenti che lei accetta nel suo corso sul “Metodo Abramovic” come prima cosa, prima di qualsiasi altra, devono sottoporsi a un digiuno assoluto di cinque giorni. Mentre lecco dalla forchetta gli ultimi deliziosi resti della panna cotta, le chiedo se non crede che forse per loro sia un po’ troppo. Per la prima volta mi fissa un po’ raggelata. Fulminandomi, dice semplicemente: «Non è poi così dura. Ci si abitua».

“Gli studenti che lei accetta nel suo corso sul Metodo Abramovic come prima cosa, prima di qualsiasi altra, devono sottoporsi a un digiuno assoluto di cinque giorni”

 

Marina Abramovic sembra proprio una persona dalla quale problemi e controversie non riescono mai a stare troppo lontani. Di recente ha perso una causa, dolorosa e sfibrante, per le royalties chieste dal suo ex amante e collaboratore, l’artista tedesco che si fa chiamare Ulay, col quale ha condiviso la vita e il lavoro per oltre dieci anni. Questo particolare pranzo nel sabato pre-elettorale le porta altri guai: la stanno malignamente prendendo di mira i troll con una mini-serie di rivelazioni in stile Wikileaks che ha cominciato a circolare all’improvviso secondo la quale lei avrebbe invitato a una “cena spiritica” alcuni ospiti, tra i quali uno stretto collaboratore di Hillary Clinton. E così adesso la notizia si è ingigantita in titoli di questo tenore: «I sostenitori di Clinton sono associati a rituali satanici».

Circolano accuse velenose di un livello tale da abbattere qualsiasi mortale. Lei, invece, mi passa il telefono per mostrarmi la sfilza di messaggi impudenti che riceve, incessantemente, di continuo. «Sono abbastanza abituata a essere maltrattata, ma santo cielo, questi qui stanno andando avanti ininterrottamente da 24 ore… e tutti ne parlano … io sarei una strega … che si occupa di cucina satanica. E in più ho abortito… mi accusano di tutto, queste persone. Stasera parto per Londra. Meno male, sono così felice».

Le chiedo: «Ma allora si perderà le elezioni?».

«Oh sì - dice -. Le pare mai possibile che cinquanta milioni di persone abbiano già votato per Trump? Questo paese è razzista. Profondamente razzista».

Nelle sue opere scorre una vena politica appassionata e fervente fin da quando era giovane, nella Belgrado comunista di allora, anche se è nata da genitori serbi che vivevano in relativa agiatezza. Poi, a mano a mano che la sua fama è andata crescendo, è stata autorizzata a viaggiare. Il lavoro, e Ulay, l’hanno portata a fare di Amsterdam la sua città per molti anni. Ma da almeno dieci anni a questa parte è New York la sua casa.

Ad attirarla con forza qui è la ricchezza della scena artistica cittadina, che lei rievoca quando, all’improvviso, come in un turbine, ha voglia di andare a vedere una mostra di Ai Weiwei, proprio lì accanto. «Ho sentito dire che fa qualcosa di estremamente simile a una cosa che volevo fare io» mi dice con un luccichio negli occhi di competitività. Sono felicemente inclusa nel piano: ci troviamo con Lindsay, la sua collaboratrice, e partiamo a razzo sghignazzando nel retro di un taxi come un trio di scolarette, scambiandoci battute sempre più impubblicabili sulle sue presunte cene sataniche. Inizio ad accorgermi che quello è il suo modo di allentare la tensione, è la sua difesa.

Dopo la mostra, fuori dalla galleria, in strada, Marina Abramovic mi saluta e mi abbraccia calorosamente. Un passante, riconoscendola, le dice semplicemente: «Grazie per il suo lavoro» ed è ricompensato da un sorriso da mille watt.

L’anno prossimo importanti mostre presso vari musei – da Stoccolma a Shanghai a Doha – potrebbero indurre migliaia di altre persone a fare altrettanto. Non si lascia andare a rivelare che cosa ci sarà in quelle mostre ma, compiuti i 70 anni, penso che possiamo stare certi che, anche se forse ha rinunciato a tagliuzzarsi la pancia, il suo lavoro continuerà a essere molto interessante e coinvolgente.

Jan Dalley è il caporedattore della sezione arte del FT - Traduzione di Anna Bissanti

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