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Equivalenti astratti dell’universo

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balla tra arte e scienza

Equivalenti astratti dell’universo

«Mercurio transita davanti al sole»,  Giacomo Balla, 1914  Collezione  Peggy Guggenheim
«Mercurio transita davanti al sole», Giacomo Balla, 1914 Collezione Peggy Guggenheim

«Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto.» Prima ancora di annunciare questo proposito nel manifesto Ricostruzione futurista dell’universo dell’11 marzo 1915, Giacomo Balla aveva cominciato a metterlo in atto, ispirandosi all’universo del moto, della luce e degli astri per dare forma visiva alla poetica del futurismo. Ne erano scaturite le Velocità astratte, le Compenetrazioni iridescenti e soprattutto la serie di disegni e dipinti del Mercurio che transita davanti al Sole, esempio nitido di «concezione e sensazione finalmente riunite» – il tratto distintivo della pittura futurista, nelle parole di Umberto Boccioni.

Balla, appassionato astrofilo, nutriva un profondo interesse per l’osservazione del cielo. «Era affascinato – scrive la figlia Elica – da quel mistero di luce e di vita nell’Universo stellato; diceva che ci dovevano essere altri mondi abitati poiché la luce è uguale in tutto l’Universo». Anche Filippo Tommaso Marinetti ricordava l’amico che«a notte alta, coricato nell’agro romano, la faccia allo zenith, parlava alle costellazioni, cercando di carpirne le formule e il fulgore intraducibili». E lo stesso Balla, in un’intervista rilasciata a un giornale nel 1911, confessava di essere sedotto dall’idea di fare dei «quadri astronomici». «È un difficile compito – notava –, ma vi è troppa poesia nello scorrere eterno di quei mondi perché non tentino un artista».

Nel Mercurio, il puntino nero del pianeta che attraversa il disco giallo del Sole appare, a un occhio esperto, particolarmente realistico: Balla, d’altronde, aveva osservato davvero quel passaggio, il 7 novembre 1914, con un piccolo telescopio. I transiti di Mercurio sul Sole, registrati a partire dal Seicento (l’ultimo si è verificato il 9 maggio scorso), hanno svolto un ruolo importante nella storia dell’astronomia. Studiandone i dati, l’astronomo francese Urbain-Joseph Le Verrier scoprì nel 1859 che il perielio di Mercurio, cioè il punto di massimo avvicinamento del pianeta al Sole, invece di essere fisso (come dovrebbe se l’orbita fosse un’ellisse chiusa), si spostava lentissimamente a ogni rivoluzione, in un modo che non poteva spiegarsi sulla base della perturbazione gravitazionale prodotta dagli altri pianeti. L’effetto era piccolissimo ma rappresentava una spina nel fianco della teoria di Newton. Con il Mercurio del 1914, Balla si trovò dunque, inconsapevolmente, a puntare gli occhi e il pennello su un fenomeno cruciale, che avrebbe fatto crollare di lì a poco l’intero edificio newtoniano, aprendo la strada a una delle grandi rivoluzioni scientifiche e filosofiche del Novecento.

Appena qualche mese dopo il manifesto di Balla e Depero, nell’autunno del 1915, fu la fisica a presentare il proprio manifesto di ricostruzione dell’universo – la teoria della relatività generale. Era il frutto del lavoro di un genio trentaseienne, Albert Einstein, il quale, dopo aver unificato spazio e tempo con la relatività speciale del 1905, si era messo alla ricerca di una teoria più ampia, capace di descrivere la gravità. Anche la relatività generale aveva a che fare con Mercurio: il suo primo successo, infatti, fu la spiegazione – precisa ed elegante – del moto anomalo di quel pianeta. Già nel 1907, in una lettera all’amico Conrad Habicht, Einstein aveva espresso la speranza che la nuova teoria della gravitazione spiegasse lo spostamento del perielio di Mercurio. Un primo tentativo, nel 1913, sulla base di una teoria ancora imperfetta, aveva prodotto un risultato deludente, in disaccordo con le osservazioni. Alla fine del 1915, rifacendo i calcoli nell’ambito della relatività generale appena elaborata, Einstein ottenne il valore corretto. Al collega Arnold Sommerfeld scrisse: «Il risultato del moto del perielio di Mercurio mi ha dato una grande soddisfazione. Quanto ci è stata d’aiuto in questo caso la pignoleria degli astronomi, che in privato tendevo a ridicolizzare«.

Le due «ricostruzioni dell’universo» che abbiamo ricordato – quella artistica dei futuristi e quella scientifica della relatività – sono coeve. Viene naturalmente da chiedersi (e la questione è ricorrente) se tra esse, e più in generale tra le avanguardie del primo Novecento e la nuova fisica, sia esistita una relazione diretta. A sostenere di sì fu, negli anni Quaranta del secolo scorso, lo storico dell’architettura Sigfried Giedion, secondo il quale i pittori cubisti e futuristi, nella loro ricerca di mezzi espressivi moderni, avrebbero sviluppato «un equivalente artistico del binomio spazio-tempo». Nel Manifesto del Futurismo (1909) di Marinetti (per esempio, in un’affermazione come «Il Tempo e lo Spazio morirono ieri») Giedion avvertiva l’eco di una conferenza che il fisico matematico Hermann Minkowski aveva tenuto a Colonia nel 1908 («Lo spazio in sé e il tempo in sé sono condannati a svanire come pure ombre, e solo un genere di unione tra i due conserverà una realtà indipendente», aveva proclamato Minkowski). Non è immaginabile tuttavia che Marinetti conoscesse il testo – peraltro abbastanza tecnico – di quella conferenza, né che avesse cognizione della teoria einsteiniana, nota all’epoca solo a una ristrettissima cerchia di specialisti. Le assonanze tra i due discorsi sono dunque accidentali (e, se si guarda al significato autentico delle parole, apparenti).

Fu solo a partire dagli anni Venti, in seguito al clamore suscitato dalla verifica della deflessione della luce stellare effettuata da Arthur Eddington durante l’eclissi totale di Sole del 1919, che la relatività fece il suo ingresso nel più ampio dibattito culturale. Il linguista Roman Jakobson, testimone della stagione del futurismo russo, raccontava di aver fatto in quegli anni un breve resoconto della teoria a Vladimir Majakovskij, che ne era rimasto folgorato, tanto da voler spedire a Einstein un telegramma di saluto: «Alla scienza del futuro dall’arte del futuro». Nell’ambito del movimento futurista italiano, un riferimento implicito alle idee scientifiche einsteiniane comparve molto tardivamente, nel manifesto marinettiano La matematica futurista immaginativa qualitativa del 1940, redatto in collaborazione con Marcello Puma, ex allievo di Guido Castelnuovo, uno dei maggiori conoscitori italiani dell’opera di Einstein. «Matematici – esortava in quel documento Marinetti – vi invitiamo ad amare nuove geometrie e campi gravitazionali creati da masse moventisi con velocità siderali».

Una volta tanto, la fervida immaginazione del fondatore del futurismo sembra aver colpito nel segno. L’onda gravitazionale captata nel settembre del 2015 è in effetti una «nuova geometria», un’increspatura dello spazio-tempo prodotta dallo scontro di due lontanissimi buchi neri orbitanti l’uno attorno all’altro a velocità vicine a quella della luce. La scoperta di queste onde, previste un secolo fa dalla relatività generale di Einstein, dischiude nuove straordinarie prospettive di esplorazione del cosmo. Vedremo quali suggestioni ne trarrà l’arte.

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