Cultura

La Tempesta sull’Asinara

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riflessi nel grande schermo

La Tempesta sull’Asinara

«La stoffa dei sogni» di Gianfranco Cabiddu. In primo piano, Sergio Rubini
«La stoffa dei sogni» di Gianfranco Cabiddu. In primo piano, Sergio Rubini

«Nuje simmo fatte cu la stoffa de li suonne, e chesta vita piccerella nosta da suonno è circondata, suonno eterno». Così nel 1984 Eduardo De Filippo rende in un napoletano seicentesco l’inglese elisabettiano di William Shakespeare: «We are such stuff as dreams are made on, and our little life is rounded with a sleep». Torna, il napoletano, in La stoffa dei sogni (Italia e Francia, 2016, 101’), che Gianfranco Cabiddu e i suoi cosceneggiatori Ugo Chiti e Salvatore De Mola hanno tratto in parte dalla Tempesta nella versione di Eduardo.

Una notte imprecisata di un’epoca imprecisata – più o meno, a metà del secolo corso –, un piccolo postale viene travolto dalla furia del mare e naufraga davanti all’Asinara. La mattina, sulle spiagge dell’isola ci sono una cassa di trucchi e costumi teatrali e otto superstiti: un anziano camorrista (Renato Carpentieri) con due suoi accoliti, che il postale avrebbe dovuto consegnare al direttore del penitenziario De Caro (Ennio Fantatichini), e tre attori guidati dal capocomico Oreste Campese (Sergio Rubini). L’ottavo è un giovane che non ricorda più chi sia, come poi dirà a Miranda (Alba Gaïa Bellugi), la figlia di De Caro. Oltre a loro, alle guardie carcerarie e ai detenuti, sull’isola c’è uno strano pastore (Fiorenzo Mattu) dai modi arcaici e dalla parlata incomprensibile. In lui si riconosce Calibano, il man-monster, l’uomo-mostro di Shakespeare. Allo stesso modo, De Caro, Campese e i suoi rimandano all’Arte della commedia di Eduardo.

Con questi personaggi Cabiddu mette in scena la sua Tempesta. E lo fa due volte. La prima volta trasforma in palcoscenico tutta l’isola. De Caro sta ora al pastore “selvaggio” come Prospero sta a Calibano. Lo stesso si può dire della Miranda moderna, che replica quella scespiriana. Sulla piccola isola sarda si consuma lo stesso crimine che si consuma sull’isola immaginaria di cinquecento anni fa. Calibano – in inglese Caliban, anagramma di canibal – è stato ridotto in servitù da Prospero, che lo ha derubato della sua terra e della sua lingua, delle parole per nominare e per amare la sua terra. La sua tragedia, ormai resa muta, viene nascosta dalla “commedia” dei suoi colonizzatori. Come lui, anche il pastore di Cabiddu non è più il protagonista della propria vita, che gli è stata rubata dalla presunzione di gente venuta da fuori.

C’è poi una seconda Tempesta, inserita in una reinterpretazione dell’Arte della commedia e a partire dalla cassa dei co-stumi e dei trucchi di Campese e dei suoi. Nel tentativo di sfuggire alla cattura, i camorristi vorrebbero confondersi con loro. Per smascherarli, De Caro li costringe tutti, attori veri e attori fasulli, a rappresentare la commedia di Shakespeare. Qui si compie la magia più grande, non quella di Ariel che muove e squassa il mare, ma quella dell’illusione teatrale. Basta aprire quella cassa, e subito ne esce il miracolo. Non c’è più potere di carceriere, sull’isola. Non c’è più prepotenza di censura. Non ci sono più guardie, non più carcerati, né camorristi,
né guitti.

Tra vecchi legni trasformati in palcoscenico, nella leggerezza di poveri stracci che diventano sipario e quinte, mare e cielo, i commedianti vincono la tragedia. Tutti sono altro, più leggeri, più felici, per paradosso anche più veri. Non è il cinismo di De Caro a guidare il gioco, adesso, né la sua ben fondata e triste conoscenza degli uomini. Un mondo nuovo ora si intesse della materia di cui son fatti i sogni, i più forti e i più fragili, quelli che si sognano nella finzione a occhi aperti. In quel mondo, per qualche istante, ritrova se stesso anche Calibano, affascinato dall’identico fascino che muove e fa vivere i teatranti.

Dopo una settimana, un altro postale lascia l’isola. Se ne vanno gli attori, e con loro Miranda e il suo nuovo amore. Li aspetta il mare, e chissà, forse un’altra tempesta. In ogni caso, portano con sé la cassa dei costumi e dei trucchi. Anche di questo capita sia fatta la libertà, della materia fragile e tenace di cui son fatti i sogni.

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