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Puntini fissi di Signac

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Puntini fissi di Signac

Paul Signac. «Saint-Cloud», 1903, (particolare), collezione privata
Paul Signac. «Saint-Cloud», 1903, (particolare), collezione privata

«Qui non si copia, signore». Paul Gauguin mette alla porta un ragazzino di soli quindici anni, sorpreso a imitare le opere di Degas alla mostra degli impressionisti del 1879. Così avvia la sua ricerca Paul Signac (1863-1935), che l’anno dopo decide il proprio mestiere: non quello di architetto, come voleva la sua famiglia di ricchi commercianti, bensì di pittore. «Preferivo disegnare sulla riva della Senna», racconterà. E offrire da bere alle ragazze della birreria Fontaine, alcune modelle per Manet e Degas, per le quali spendeva volentieri i suoi primi spiccioli. Nessuna scuola né accademia per un artista vocato all’indipendenza (diventerà un convinto anarchico), e per un mestiere che è passione e ossessione. Fatta a forma di piccoli punti di colore. Quadratini, pennellate che non scorrono ma si esauriscono con un solo tocco, attimi di colore che compongono le tele più note di un maestro del post impressionismo che va sotto il nome di Pointillisme. Eppure, la mostra «Paul Signac. Riflessi sull’acqua», curata da Marina Ferretti Bocquillon e aperta fino all’8 gennaio 2017 al LAC di Lugano (che festeggia il suo primo compleanno), racconta anche altre ossessioni del pittore francese. Qui sono esposti 140 lavori, dalle prime prove di ventenne al 1935, anno della morte. Si vede la coerenza, la “caparbietà”, si potrebbe dire, di un artista che attraversa i decenni cruciali del passaggio dalla tradizione alla modernità, peraltro attivo nelle aree centrali di questa rivoluzione, Parigi e il Midì, anticipandone alcune strade. Poi rifluisce però sempre in quel terreno che gli è caro e familiare, restando se non impermeabile, almeno autonomo rispetto ai veri scossoni delle avanguardie. Come i Fauves di Matisse, che incontra ma non segue. Passa la vita a viaggiare con gli acquerelli sempre al seguito e pronti all’uso, come gli aveva suggerito il più anziano Camille Pissarro: «l’acquerello è prezioso, molto pratico, si può arrivare in qualche minuto a prendere annotazioni altrimenti impossibili». A fine carriera gli servirà per uno speciale reportage sui porti francesi, molto ben documentato in mostra.

La particolarità della rassegna, già alla Fondation de l’Hermitage di Losanna nel gennaio-maggio scorsi, è la provenienza di tutte le opere da una singola collezione. Una famiglia svizzera, tassativamente anonima, ha raccolto negli anni un numero straordinario di opere dell’artista, possibile grazie alla sua longevità e prolificità, ma pur sempre eccezionale.

La mostra resiste alla tentazione di istituire confronti. Con il più anziano amico Georges Seurat, per esempio, morto a soli 31 anni nel 1891 causando un vero trauma a Signac, un cambio di rotta e l’abbandono di Parigi. Ciascun visitatore potrà certo pensare alle intuizioni di Claude Monet, dalla quali Signac restò folgorato vedendo la sua mostra parigina del 1880. O ad alcune opere coeve di Van Gogh, e constatare la diversità della sua pennellata energica e violenta, rispetto a quella meditata e scientifica di Signac. Che resta tale anche quando smetterà di applicare fedelmente la teoria della mescolanza ottica e allargherà il tocco, mantenendo sempre salda la convinzione che la divisone dei toni era la tecnica «più adatta» a dargli «il risultato più armonioso, più luminoso e più colorato». «Mi piace così», ribadisce l’artista su un diario alla data 14 giugno 1894.

La tecnica prende avvio insieme a Seurat dallo studio teorico dell’ottica e della percezione del colore, come la mostra ricorda esponendo testi riferimento fondamentali (tra cui L’introduction à une esthétique scientifique di Charles Henry del 1885) vicini al curioso “Disco di Newton”, un esemplare antico proveniente dal Museo della Scienza di Ginevra.

La sua opera non suona mai freddamente scientifica. Mentale sì. L’attimo in Signac pare sempre ricomposto dal pensiero. Il processo che giunge allo scenario finale tradisce la sua ricerca di compostezza, quiete, rigore, simmetria, con un risultato dunque ben diverse dall’immediatezza di tanti paesaggi impressionisti. L’adozione di una linea sinuosa che ammorbidisce le forme, così da richiamare talvolta certi umori di segno simbolista, trasmette la sua emozione, soprattutto e sempre per il colore. Il rosa di Avignone al mattino (1909), il celeste di Marsiglia (1906), la meravigliosa tinta glicine di Mont-Saint-Michel (1897) nella nebbia e nel sole.

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