
Ho dentro di me il trionfo della Butterfly antica e moderna e quei 14 minuti di applausi alla prima della Scala, cuore musicale d'Italia, la bacchetta magica del maestro Chailly che cadenza le emozioni, le voci e la scenografia piene di intensità e di colori che “invadono” la città, dall'Ottagono in Galleria al carcere di San Vittore fino alla casa di riposo per i musicisti Giuseppe Verdi. L'anima e il corpo di Milano, capitale economica e presidio internazionale di un'idea civile e perbene dello stare insieme. Avverto una sensazione di casa in questo teatro così raccolto pieno di armonia e di passione, l'assenza della politica impegnata a risolvere la sua crisi restituisce ancora di più il profumo della milanesità che è fatta di regole non scritte ma rispettate, di silenzi e sorrisi complici, quella spinta naturale del fare che è il timbro contagioso della società. Il colpo d'occhio dei palchi a destra e a sinistra, alzando lo sguardo dalla platea, ti trasferisce una visione della vita che esprime l'orgoglio di una comunità, un impasto di economia e di cultura, la forza e il peso della storia che hanno in questo teatro un simbolo che appartiene a Milano e al mondo. Mi viene in mente De Gasperi che sceglie il teatro alla Scala per uno dei discorsi che restano e che è un inno alla stabilità politica e al lavoro, nei giorni della ricostruzione del dopoguerra. Lo statista trentino è consapevole che, per ripartire, il Paese ha bisogno di fatti e di simboli, per questo ha voluto che si facessero i lavori per ridare subito ai milanesi il teatro alla Scala, perché è un simbolo, anzi il simbolo della cultura cosmopolita di Milano, e la fiducia si nutre di tensioni ideali, di lavoro e di simboli. Rimettere in moto la Scala significava rimettere in moto l'Italia nel segno di «quell'interesse primario» che «è la produzione», sono parole sue. O, magari, ripartire da quella frase del maestro Toscanini che ritorna a casa nel suo teatro, dopo gli anni di esilio del fascismo, per dirigere il concerto di riapertura. Guarda la volta e i palchi restaurati, butta un occhio su poltrone e palcoscenico, il maestro. Poi, batte due volte le mani e, riferendosi all'acustica, si lascia andare a un solo commento: «Ecco la Scala». Pensavo a tutto questo in una giornata di Sant'Ambrogio fredda ma asciutta e, soprattutto, coglievo in questo laboratorio culturale di idee e di spirito d'intrapresa il senso profondo di una sfida civile e politica quotidiana, fatta di gesti e di esempi, che fanno di Milano la bandiera dello spirito internazionale e combattivo del Paese.
Torno a casa e mi ritrovo tra le mani «Pensieri sull'Italia, l'importanza della politica» (Salerno editrice) di Pellegrino Capaldo, professore emerito della Sapienza di Roma, un passato da banchiere e da consulente di primari gruppi industriali, una delle teste che più guarda lontano e che non ha mai smesso di esplorare la politica per cercare di cogliere anzitempo gli umori profondi della società, il libro è di marzo di quest'anno e lo avevo messo sul comodino come faccio sempre con tutto ciò che mi interessa veramente. Mi accorgo subito che il professore ha, ancora una volta, colto nel segno, e se lo avessi letto prima avrei capito meglio che cosa c'è davvero dietro il trionfo del no al referendum costituzionale, dove e come si possono rimettere insieme i cocci di una società che non sa neppure riconoscere i passi in avanti che fa ma che, per crescere davvero, ha bisogno di liberarsi di tabù, di riconciliarsi e di cambiare linguaggio e passo. Mi ha colpito, tra le tante, una frase: «Sottolineo l'esigenza di un diverso atteggiamento nei confronti della politica. Il disinteresse per tutto ciò che la riguarda è certamente comprensibile; bisogna, tuttavia, rendersi conto che, così facendo, si contribuisce sempre più a degradarla. Della politica non si può fare a meno, e allora non resta che adoperarsi per migliorarla». In questo testo ci sono cultura industriale, quella vera, e un'idea moderna del welfare e della partecipazione, si percepisce il gusto profondo di entrare dentro le cose di chi è abituato a non fermarsi mai alla superficie e non ha nessuna voglia di accettare con rassegnazione il declino, fuori dai semplicismi, dai dualismi dimenticati e dalle rottamazioni più o meno di comodo, con una stella polare che sono i giovani e la politica, la speranza e un metodo di governo. A pagina 15 si legge testualmente: «L'insufficiente senso di appartenenza e il deficit di partecipazione dei cittadini sono probabilmente i nostri mali più gravi, un po' perché sono difficili da curare e un po' perché il loro superamento condiziona l'efficacia della cura degli altri... colpisce, in particolare, la serena rassegnazione con la quale molti giovani e giovanissimi, sostenuti e talora incoraggiati anche dalle loro famiglie, si trasferiscono all'estero per completare i loro studi e poi decidono di rimanervi attratti da percorsi professionali più lineari, più prevedibili e meno rischiosi. In molti casi sono giovani di qualità, la cui partenza impoverisce drammaticamente il nostro Paese e, alla lunga, lo condanna al declino e alla emarginazione... un movimento a senso unico, o quasi...». E poi, ancora più controcorrente: «Che dire del distacco, anzi del disprezzo della gente per la politica? Se si guardano le cose in superficie, è un sentimento comprensibile. Ma non possiamo tacere che è profondamente sbagliato. La gente deve comprendere che della politica non si può fare a meno, sicché occorre adoperarsi per farla funzionare bene. Non ha alcun senso demonizzarla per il solo fatto che alcuni che vi sono impegnati si comportano molto male. Così facendo si aggravano sempre più le cose, perché per forza d'inerzia la politica non rinsavisce ma cade sempre più in basso... gli scandali che sempre più spesso la investono, lungi dall'allontanarlo, dovrebbero avvicinare il cittadino alla politica con la speranza di migliorarla, e, con essa, di migliorare anche la qualità della propria vita». Parole sacrosante, a loro modo profetiche, decisamente controcorrente, per la politica, mestiere usurato ingiustamente sia da una classe dirigente che non esce dai suoi vizi, vecchi e nuovi, sia dall'incapacità diffusa di cogliere i cambiamenti che pure ci sono, tra mille contraddizioni, e aiuterebbero a ricostruire la fiducia nel futuro. Parole sacrosante per i nostri giovani così pieni di talento che protestano contro la politica e finiscono spesso con rinnegarla, ma che proprio dalla politica, e non da altro, possono avere le risposte giuste ai loro bisogni e alle loro aspettative.
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