Ci voleva una piccola realtā indipendente come Zona K per portare a Milano una delle formazioni di punta del panorama europeo di oggi, l’Agrupaciķn Seņor Serrano, Leone d’Argento 2015 alla Biennale di Venezia. Ci voleva questo organismo dalle scarse risorse economiche, ma attivo e vitalissimo, guidato da giovani donne preparate e intraprendenti, per far conoscere alla cittā, dopo altri artisti di rilievo internazionale come Oliver Frljic o i Rimini Protokoll, la sorprendente compagnia catalana, uno di quei fenomeni creativi che stanno cambiando il volto della scena contemporanea, e di cui i teatri istituzionali ignorano persino l’esistenza.
Non lo dico per polemica, ma il problema si pone con crescente evidenza. C’č un divario ormai schiacciante fra tanto nostro teatro di ricerca ed esperienze straniere che sarebbe improprio continuare a definire di nicchia o d’avanguardia, e vanno piuttosto considerate come espressioni di una nuova spettacolaritā giā matura e collaudata, di cui sulle ribalte italiane si vedono poche e sporadiche tracce. Ho scritto tempo fa che i direttori dei teatri non frequentano i festival, ma la questione va ben oltre: salvo eccezioni, non sanno, non si informano, non sentono il bisogno di aggiornare il loro pubblico.
L’Agrupaciķn Seņor Serrano, con uno stile molto vicino a quello di un gruppo olandese visto anni fa, Hotel Modern, che realizzava uno spettacolo ambientato nel modellino di un lager, lavora su oggetti, immagini, pupazzetti disposti su tavoli o sul pavimento, manovrati a vista e inquadrati con videocamere che li proiettano su uno schermo. Non si tratta, ovviamente, di un semplice video, ma di una costruzione complessa dove la scelta dei materiali, il modo in cui vengono usati “in diretta”, i gesti stessi dei performer-animatori concorrono in ugual misura al prodigioso effetto tecnico finale.
A Milano la compagnia ha presentato due spettacoli, uno vecchio e uno nuovo: Katastrophe, del 2011, č una divertente e crudele favola antropologica che mostra una specie di graffiante storia dell’umanitā dai primi passi della civiltā a una feroce auto-distruzione finale, passando attraverso guerre, conflitti etnici, l’attentato delle Torri Gemelle: a interpretarla sono alcune centinaia di orsetti di una sostanza gommosa, di colori diversi per indicare i popoli che si scontrano in ameni paesaggi in miniatura, fino ad essere sciolti e annientati da reazioni chimiche provocate dal vivo, o bruciati dalle fiammate di minuscole esplosioni nucleari.
Ma a lasciare il segno č stato soprattutto il recentissimo Birdie, presentato al Mittelfest la scorsa estate: l’azione, qui, non a caso č ambientata a Melilla, cittā spagnola in terra d’Africa circondata da una barriera per respingere i migranti. Con una geniale invenzione, viene stabilito un parallelismo tra un celebre film, Gli uccelli di Hitchcock, e lo scatto di un fotografo in cui alcuni immigrati stanno scavalcando la recinzione di un campo da golf, nell’indifferenza dei giocatori: le migrazioni dei popoli e quelle dei volatili sono mosse da uno stesso insopprimibile impulso vitale, la paura che suscitano č dovuta a sentimenti ugualmente oscuri e irrazionali.
A sostenere Birdie c’č una struttura drammaturgica in qualche modo inesorabile: mettendo insieme sequenze hitchcockiane, depliant di Melilla, oggetti quotidiani dello stesso fotografo, e combinando il tutto con dichiarazioni dei golfisti, dei poliziotti, degli abitanti, essa trascina lo spettatore allo struggente finale, con le riprese di un’interminabile fila di animaletti di ogni specie, dinosauri, gorilla, neonati umani, che si snoda su un finto prato – il viaggio, lo spostamento come istinto primordiale – verso una meta comune, un campo da golf su scala ridotta. Poi i performer raccolgono il tutto con delle palette, e in pochi istanti fanno il vuoto.
Raramente – credetemi – ho visto il tema delle migrazioni affrontato in una chiave cosė commovente.
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Birdie , Katastrophe di Agrupaciķn Seņor Serrano, visti a Milano, Teatro La Cucina e Zona K.