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Sempre più distanza tra vincitori e vinti

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Sempre più distanza tra vincitori e vinti

Questa domenica torniamo sui problemi, sollevati la volta scorsa, da quello che Barack Obama, in un recente discorso alle Nazioni Unite, ha chiamato il paradosso dell’economia mondiale: dal punto di vista economico il mondo, in una prospettiva storica, non è mai stato così bene, ma il malessere è diffuso un po’ dappertutto.

Un paradosso, questo, che ha avuto eclatante conferma, per quanto riguarda il malessere, dalla sorprendente ascesa di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti.

La gente non è contenta. Una recente inchiesta internazionale del World Economic Forum ci dice che in quasi tutti i Paesi più del 50% della popolazione pensa che il mondo stia andando peggio. Perché? Quel che abbiamo detto la settimana scorsa ha ispirato più di un lettore e due lettere, a questo proposito, sono state pubblicate nel Sole -24 Ore del mercoledì passato (9 novembre). C’è chi ne fa colpa al “villaggio globale”, nel quale le cattive notizie (che interessano più di quelle buone) viaggiano con la velocità della luce. Qualcuno ha detto: «Una bugia può fare il giro del mondo, mentre la verità si sta ancora allacciando le scarpe». Altri hanno detto che il problema sta nel fatto che la gente non ha più fiducia nel futuro. In passato magari eravamo poveri, ma i figli avevano una ragionevole certezza che sarebbero stati meglio dei padri. Oggi questo non succede più.

C’è del vero in ambedue queste affermazioni. Ma la domanda rimane. Perché le cattive notizie ci rendono così pessimisti? Dopotutto, queste ci sono sempre state. E perché la gente non ha più fiducia nel futuro?

Molto dipende dalle crescenti diseguaglianze. Abbiamo detto la volta scorsa che, se è pur vero che il mondo ha continuato a crescere, i frutti di questa crescita non sono stati equamente distribuiti. Le diseguaglianze sono cresciute, un po’ dappertutto. Non tanto se si guarda al mondo come a un solo Paese, perché in quel caso il fatto che i due Paesi più popolosi del mondo – Cina e India – siano cresciuti molto più della media fa sì che la diseguaglianza mondiale sia diminuita. Ma anche all’interno di Cina e India la distanza fra ricchi e poveri si è allargata, così come nei Paesi industriali. Ed è questa diseguaglianza interna che conta: la gente si confronta con quelli che vivono vicino.

Qui entra in gioco il cosiddetto star system, come viene chiamato in economia: un sistema, cioè, che premia i possessori di abilità non riproducibili, da quelle di Michael Jordan a quelle di Michael Jackson, da quelle di Madonna a quelle di Lady Gaga. Che cosa vuol dire “abilità non riproducibili”? Lo star system delle vere “stelle” basa la sua generosità nella capacità di quanti son baciati da abilità uniche di donare agli altri qualche pur effimero godimento. E questi “stellari” guadagni sono andati crescendo nel tempo, grazie alla tecnologia. Pensiamo a cento anni fa, quando un famoso cantante si esibiva in un teatro o in uno stadio. Quante persone potevano ascoltarlo? Cinquecento? Mille? Trentamila? Oggi quel concerto avrebbe potuto essere trasmesso in televisione o in streaming su Internet per milioni di persone. E rirpdotto in CD o DVD per altri milioni di persone negli anni e nei secoli a venire. La star non avrebbe avuto torto allora nel dire: chi mi ascolta gode del mio talento ed è giusto che paghi qualcosa. La tecnologia ha dato ai possessori di “abilità rare” i mezzi per raggiungere un pubblico enorme, nello spazio e nel tempo, e quindi ha esteso le loro possibilità di guadagno.

Molto meno difendibile è lo star system nel campo dell’economia e della finanza. I grandi manager di banche e imprese guadagnano spesso in un giorno quanto un loro sottoposto guadagna in dieci anni; e succede anche che quando lasciano sotto l’onta di perdite si portano a casa un “paracadute” pari a quanto un loro impiegato guadagna in una vita. Nella finanza vi possono essere i godimenti dei profitti, ma vi sono anche le sofferenze delle perdite. E un sistema di remunerazione che premia i primi e non punisce le seconde contravviene sia alla morale evangelica che al comune sentire.

Le diseguaglianze sono tuttavia aumentate anche a prescindere dallo star system. Le due grandi rivoluzioni degli ultimi vent’anni – la globalizzazione e la la rivoluzione “orizzontale” della telematica (nel senso che tocca tutti i settori e tutti i modi di produrre e di consumare) – hanno portato e porteranno grandi benefici, ma anche grandi dislocazioni: le risorse devono passare da settori in declino a settori in espansione e questi passaggi creano stuoli di vincitori e di vinti, aumentando le diseguaglianze. I bilanci pubblici sono in tensione, perché c’è bisogno di soldi per oliare quei passaggi e rafforzare le reti di sicurezza sociale, oltre a promuovere formazione, (ri)addestramenti e migliorare il sistema educativo per ridurre i divari: l’economia della conoscenza premia, appunto, la conoscenza e penalizza quei lavori meno nobili che già subiscono gli urti di una globalizzazione reale o virtuale. Ma i soldi non ci sono, perché la Grande recessione ha fatto aumentare i debiti pubblici, e le politiche di bilancio sono restrittive o prudenti un po’ dappertutto.

Le diagnosi sono sempre più difficili delle terapie. La prima terapia non può che essere una politica di supporto alla crescita, usando tutte le leve – di bilancio, della moneta, delle riforme – disponibili, anche a costo di prendere dei rischi. E il supporto non è solo alla domanda ma anche alla distribuzione dei redditi, così da rafforzare una rete di sicurezza sociale che ha di fronte i compiti gravosi cui abbiamo accennato sopra.

La seconda terapia è quella di investire sulla conoscenza, e quindi sul sistema educativo. Il mondo è cambiato più rapidamente di quanto non sia cambiato il sistema scolastico. E qui c’è molto spazio per riforme che imparino dalle “best practices”, dalle migliori soluzioni che si trovano in giro per il mondo.

fabrizio@bigpond.net.au

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