Hanno avuto un coraggio straordinario, ribelli contro un mondo che ha visto nella divisione dei sessi il fondamento indiscutibile della società. Hanno combattuto contro la Bibbia che nel Deuteronomio dichiarava abominevole a Dio una donna in abiti da uomo e un uomo in abiti da donna. E hanno lottato per rendere visibile ciò che molti vorrebbero rimanesse nascosto, l’identità più vera e profonda, diversa, quel sentirsi di genere femminile anche se nati uomini e di genere maschile se nate donne. Va da sé che la punizione per tale disobbedienza sia stata sempre pesantissima, non solo in termini di emarginazione, ma molto di più e basta pensare alla morte di Hande Kader, transessuale turca, ventidue anni, assassinata nell’agosto scorso, e ritrovata bruciata e mutilata in un quartiere di Istanbul.
Eppure a metà dell’Ottocento la fotografia, di natura democratica o solo indifferente, ha offerto ai transgender uno specchio per riconoscersi, pur nella solitudine di una camera da letto, in un giardino segreto, nel buio di un photomaton, o ancora in una sala da pranzo tra pochi intimi, dopo aver chiuso le tende. Uno specchio per amarsi e onorarsi, e dopo un lungo combattimento sposare quell’altro sé, come racconta oggi un libro meraviglioso, MauvaisGenre. Le travestis à travers un siècle de photographie amateur, raccolta di fotografie anonime di uomini in abiti femminili e viceversa, dal 1880 al 1980, collezionate da Sébastien Lifshitz, regista sensibilissimo, suoi Wild Side, premiato a Berlino, Lesinvisibles, miglior documentario ai César 2013, Bambi, altro premio a Berlino, e infine Les vies de Thérèse, Queer Palm all’ultimo festival di Cannes.
La vita, o meglio le tante vite in una sola, sempre ai bordi della storia, lontano dal potere morale, politico e sociale, è la materia di questo libro, già applaudito ai Rencontres di Arles e soggetto di una bellissima mostra appena chiusa a Parigi, nella Galerie du Jour Agnès B. Non sorprende quindi se Sébastien Lifshitz, quarantotto anni, collezionista da quando ne aveva diciotto, abbia scelto la fotografia più marginale, libera ed eversiva, la fotografia anonima o trouvée - rintracciata nei mercatini, su internet o grazie all’aiuto di alcuni galleristi in Francia e in America - per mettere a fuoco un tema quale la costruzione sociale dei ruoli sessuali, individuando al tempo stesso nel travestitismo, considerato patologia e punito per legge, la risposta a una cultura che nell’Ottocento è tutta in trasformazione e in movimento da un genere all’altro. Per protesta o per adesione. Se gli uomini virilizzano, uniformano e incupiscono il guardaroba, rinunciando ai fasti dell’Ancient Regine e scatenando la fobia della debolezza femminile, le donne scelgono i pantaloni per rivendicare una nuova parità. Non tutte, ma sono molte.
Di questo parlano con la voce potente della fotografia anonima, potente perché pratica comune, gioiosa, spontanea, fuori dalla cerchia ristretta dei fotografi artisti, le donne senza nome ritratte anche in smoking, a cui di sicuro era giunto l’eco di sorelle più importanti, che avevano scelto di vivere in abiti maschili non solo per una festa, un gioco tra amiche, o la pochade di un finto matrimonio, ma tutti i giorni. Donne come Jane Dieulafoy, archeologa francese che alla fine dell’Ottocento si taglia i capelli e indossa gli abiti del marito per evitare fastidi nelle lunghe permanenze in Medio Oriente, e che al ritorno in Francia riceve dal prefetto di polizia la permission detravestissement non volendo rinunciare neppure in patria alle comodità maschili. O ancora donne come Madeleine Pelletier, medico, prima in Francia a sostenere l’esame per diventare psichiatra nel 1906, quindi nello stesso anno eletta segretaria della Solidarité des femmes, una delle associazioni femministe più radicali, e a chi le chiedeva il perché di quel completo da uomo, rispondeva di sentirsi travestita solo quando indossava una gonna. E poi a segnare un’epoca e uno stile, copiatissimo pensiamo alle variazioni sul tema di Helmut Newton, ci sono le donne che tra gli anni ’20 e ’40 frequentano Le Monocle, uno dei primi e sicuramente il più famoso club di lesbiche a Parigi, al 60 di Boulevard Edgard-Quinet, dove il monocolo e il garofano bianco all’occhiello erano i segni di riconoscimento, e dove Brassaï realizza uno dei capitoli più intensi del suo reportage notturno nella Ville Lumière.
Se le donne transgender di questa collezione appaiono nelle vesti di conquistatrici spavalde, felici di aver di aver beffato un destino minore, gli uomini al contrario mostrano uno «strano desiderio di normalità», come recita il saggio di Isabelle Bonnet. Certo, le immagini più effervescenti e prevedibili sono quelle legate alla scena, magari del Wonder Club a New Orleans. Ma a colpire sono quelle realizzate nella tranquillità domestica, in una casa di Washington dove negli anni ’40 una piccola comunità di uomini si ritrova, si veste da donna, si ritrae, e per assurdo il modello di riferimento è la «donna decorativa» dell’epoca, in abito lungo e trucco pesante, suprema immagine del desiderio maschile. Alla fine, l’operazione più difficile, lo sviluppo della pellicola, gestito artigianalmente tanto era pericoloso affidare i rulli a un laboratorio fotografico. Denunce e ricatti erano all’ordine del giorno.
Anche a pochi chilometri da New York, nelle camere e nei bungalow del resort Chevalier D’Eon, omaggio alla figura del celebre diplomatico francese del XVIII secolo, uomo nella prima parte della sua vita e donna nella seconda, le fotografie scattate hanno lo stesso sapore familiare: partite a scarabeo, tè delle cinque, aperitivo e persino lavori in cucina. Ad aprire le porte dell’hotel a metà degli anni ’50 sono Tito Valenti, transessuale in arte Susanna, e sua moglie Marie, coiffeur di parrucche tra le più ricercate dagli amanti del cross-dressing. Più tardi la coppia inaugurerà un altro ritrovo famoso, Casa Susanna, e al costo di 190$ al weekend offrirà vitto, alloggio, lezioni di portamento e trucco, come pubblicizzava lo stesso Valenti sulle pagine di Transvestia, prima rivista americana transgender, grande quanto il palmo della mano per poterla nascondere, creata nel 1960 da Charles-Virginia Prince, attivista transessuale e fondatore anche della Society for the Second Self. Appartiene a lui la definizione di girl-within, la ragazza all’interno, il secondo sè, e questa ragazza, scriveva Prince, «merita di essere una persona vera, carina, pulita, una persona con un suo carattere e i suoi gusti». Una persona che guardandosi allo specchio e camminando per strada tra la gente poteva dire «quella sono io».
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