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Per tornare a crescere bisogna «oziare» di più

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Per tornare a crescere bisogna «oziare» di più

L’economia della conoscenza: cosa vuol dire questa espressione? Vuol dire due cose, che attingono al doppio significato della parola “economia”: il fatto (sistema economico) e la disciplina (scienza economica). Allora, l’economia della conoscenza può voler dire un sistema economico, come quello attuale, che è sempre più basato sulla conoscenza (in particolare tecnico-scientifica); oppure lo studio della conoscenza come fattore economico: oggetto di consumo, di compravendita e/o fattore di produzione.
Ma in che cosa si differenzia il ruolo della conoscenza rispetto al passato? Cominciamo col dire che la storia dell’economia non fa altro che descrivere un progresso – a volte lento, a volte rapido – nell’interazione umana fra le mani e la mente. Già Adam Smith – nella sua opera seminale, “La ricchezza delle nazioni” (1776) – scrisse: «...ci vogliono i filosofi…, il cui compito consiste nel non fare niente ma nell’osservare tutto – uno schiavo miserabile che macina il granoturco fra due pietre può trovare la maniera di far girare la pietra di sopra attorno a un asse; ma per trovare la maniera di farla girare con l’acqua ci vuole un filosofo (filosofi meccanici, morali, politici, chimici…)». Adam Smith era un professore di filosofia morale (l’economia come scienza non esisteva ancora, prese l’abbrivio da lui) e per questo parla di filosofi. Ma voleva sottolineare il ruolo della mente, o, se si preferisce, dell’ozio creativo...

Il periodo in cui scriveva Smith era anche quello della rivoluzione industriale. A quel primo sommovimento, basato sulle macchine a vapore e sui telai meccanici, successero poi altre tappe “rivoluzionarie”, dall’elettricità alle ferrovie, dalla motorizzazione di massa alle materie plastiche, e poi giù (o su) fino all’elettronica, ai nuovi materiali, ai prodigi della telematica...
Allora, se la “conoscenza” è andata sempre intessendosi nell’ordito e nella trama dell’economia, cosa c’è di diverso nella “economia della conoscenza” di oggi? La differenza è più una questione di quantità che di qualità (anche se Nikita Kruscev, parlando del numero di testate atomiche, disse: «La quantità ha una qualità tutta sua»...). La conoscenza è diventata un fattore di produzione a sé stante. Un fatto, questo, che è stato riconosciuto anche dalla contabilità nazionale, che ha ammesso nella cerchia dei beni d’investimento, oltre ai tradizionali capannoni, macchinari e case, anche il software e le spese di Ricerca e Sviluppo.

L’espressione “capitale umano” è di lunga data, ma è sempre più vera come espressione della dote di capitale di una nazione. Questa somma di “istruzione-saper fare-abilità manuali e intellettuali” sta sostituendo le risorse naturali fra le componenti della “ricchezza delle nazioni”. Anche qui, l’emersione del concetto risale a molto tempo fa. Quando ci fu la prima crisi petrolifera, che mise a nudo la dipendenza dell’Occidente dal petrolio arabo, una battuta circolava in Francia: «Noi non abbiamo il petrolio ma abbiamo le idee»; e la Francia costruì una rete di centrali nucleari che finirono col produrre la maggior parte di energia elettrica di cui il Paese abbisognava.
Negli ultimi cento anni il “peso” del Pil – cioè a dire, il peso in tonnellate dei beni prodotti da una nazione – non è variato di molto, ma è aumentato immensamente il valore reale di quel che una nazione produce. A beni più leggeri si sono aggiunti i servizi, spesso senza peso. Dietro questa “leggerezza” ci sono i capitali invisibili della conoscenza. Le mani maneggiano, appunto, cose che fanno male se ti cadono su un piede. Ma la mente maneggia concetti e li trasforma in processi, procedure, interazioni, giochi...

Se allarghiamo il concetto di conoscenza e lo applichiamo anche al funzionamento delle istituzioni vediamo che un Paese “ben temperato” si fonda non tanto sul carbone o sull’oro o sul petrolio o sulla terra fertile, quanto sulla somma di conoscenze. Conoscenze che riguardano sia i processi che i prodotti, sia l’organizzazione della convivenza che la qualità del tessuto sociale.
L’economia è tradizionalmente fondata sulla scarsità. È la scarsità che rende un bene più appetibile. Una mela mangiata da Tizio non può essere mangiata da Caio, un’auto può essere guidata da una sola persona alla volta. Ma nell’economia della conoscenza vi sono molti casi in cui il problema non è la scarsità ma l’abbondanza. Un software, un programma o una “app” possono essere replicati all'infinito e usati o goduti da più persone contemporaneamente. L’informazione non è più un privilegio spesso costoso, ma diventa fruibile dappertutto e istantaneamente: si pensi alla difficoltà che hanno i media (Il Sole-24 Ore incluso) a trovare un modello di business che sia profittevole nell’era digitale.

La conoscenza può anche assumere la forma di bene di consumo. Vi sono dei siti in cui si svolgono aste non convenzionali: qualcuno fa una domanda per risolvere un problema, e chi sa rispondere propone un prezzo per la sua risposta; il domandante poi sceglie il prezzo più basso. E la conoscenza, abbiamo detto, è anche bene d’investimento. Si aggiunge allo stock di capitale, ma può anche dare l’occasione per ridurre le dotazioni infrastrutturali di una nazione. Si pensi ai tanti esperimenti in corso di vetture senza guidatore. Una volta che siano perfezionate, la capacità della rete stradale aumenterà di molto, senza nuove strade: niente distanza di sicurezza, le auto, controllate da computer, potranno viaggiare a velocità elevate a pochi centimetri di distanza l’una dall’altra...
Quando si pensa agli investimenti si pensa alle imprese, che ne fanno molti o pochi (in questo momento, in Italia, in Europa e in America, non abbastanza). Ma l’idea “materiale” che abbiamo degli investimenti è antiquata. L’investimento più urgente da fare – un investimento che coglie due piccioni con una fava, perché aumenta la capacità produttiva in senso lato e riduce anche le diseguaglianze nella distribuzione dei redditi personali – è l’investimento in capitale umano, e segnatamente nelle scuole e nelle università. Un campo dove l’Italia è agli ultimi posti...

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