Cultura

Trovare nuovi equilibri: questa è vera «grandeur»

  • Abbonati
  • Accedi
IL SOLE JUNIOR

Trovare nuovi equilibri: questa è vera «grandeur»

Fa differenza, per la salute economica di un Paese, essere stato per mille e più anni, uno Stato unitario? A differenza della Germania la Francia è stata, da sempre o giù di lì, un solo Stato, anche se i confini precisi sono stati talvolta brevemente cambiati da guerre e annessioni o estensioni dinastiche («I Pirenei hanno cessato di esistere», disse Luigi XIV°, il “Re Sole”, quando suo nipote divenne Re di Spagna). E lo Stato («Lo Stato sono io», disse – ma l’attribuzione non è sicura – il suddetto Luigi) è sempre stato importante nel conscio e nell’inconscio della Francia, e questo forse spiega perché l’economia francese ha una quota di spesa pubblica del 56,5% del Pil, la più alta fra i Paesi Ocse dopo la Finlandia.

Essere uno Stato unitario per tanto tempo non è facile, perché vuol dire resistere sia a pressioni esterne – guerre di conquista – che a quelle interne – secessioni o guerre civili. Ci vuole un forte controllo, e la Francia, sia nel periodo delle monarchie più o meno assolute che nei periodi repubblicani, è sempre stata uno Stato centralista, con Parigi che teneva strette le redini del resto del territorio.

E il territorio della Francia è grande. Anche senza scomodare i possedimenti d’oltre mare, la Francia, con 550mila kmq, è il più grande Paese dell’Europa occidentale. Ed è anche poco montuoso. In Italia costruire strade e autostrade è più costoso che in Francia, perché ci sono Alpi e Appennini, colline e ondulazioni varie. La natura del territorio consente alla Francia un’ottima rete di trasporti, sia stradali che ferroviari e fluviali.

Ma torniamo al centralismo. Questo è forse adesso un po’ attenuato, ma un tempo si spingeva fino al punto in cui un ministro dell’Istruzione, consultando l’orologio, poteva dire: “a quest’ora, in tutti i secondi anni di liceo in Francia, si sta svolgendo l’ora di scienze». Questa uniformità un po’ soffocante ha giovato però alla Francia, perché il centralismo ha prodotto le “Grandes Écoles”, veri e propri centri di formazione di una classe dirigente che invece è mancata all’Italia. I “grands commis” usciti da quelle Écoles si ritrovano in tutti i centri nervosi del potere, dalla politica alle sfere alte della burocrazia, alle grandi imprese statali e alle grandi imprese private. E di queste ultime ce ne sono molte, a differenza dell’Italia: nella classifica (Fortune Global 500) delle maggiori società del mondo, la Francia ne ha 31 nelle prime 500, e si situa al quarto posto, dopo Usa, Cina e Giappone.

La “mainmise” dello Stato ha prodotto un’amministrazione efficiente, servizi pubblici ben temperati e molti progetti di prestigio e di “grandeur”. La reazione francese alla prima crisi petrolifera ha portato alla costruzione di una rete di centrali nucleari per ridurre la dipendenza della Francia dal petrolio importato: così, tre quarti della produzione elettrica viene dal nucleare, e la Francia è il primo esportatore mondiale di elettricità. Del pari, insieme alla Germania, ha creato con l’Airbus un’alternativa all’egemonia americana nella produzione aeronautica, ed è stata un pioniere dell’Alta velocità nei trasporti ferroviari.

Come detto prima, le caratteristiche geografiche del territorio francese favoriscono i collegamenti stradali e ferroviari, che possono tirare dritto per grandi distanze. Già nell’Ottocento uno statista-poeta francese, Alphonse de Lamartine, auspicava il ricorso alle ferrovie per modernizzare le regioni meno sviluppate della Francia: le ferrovie avrebbero migliorato la situazione di «popolazioni due o tre secoli indietro rispetto agli altri», e avrebbero «eliminato quegli istinti selvaggi generati dall’isolamento e dalla miseria».

Questo centralismo è ben diverso dall’autocrazia: a livello di società civile i fermenti sono grandi e costanti. Il ricordo della Rivoluzione francese è sempre ben presente nella società, se non altro per i ritornelli della Marsigliese e gli editti del governo centrale, quando tocchino problemi controversi, come le regole del lavoro o della scuola, suscitano presto movimenti di piazza. É come se la rigidità a livello del funzionamento dello Stato – un efficiente coperchio che schiaccia le pulsioni centrifughe – portasse inevitabilmente ad attizzare queste pulsioni ad altri livelli della convivenza.

Come altri Paesi europei, la Francia ha sofferto molto della Grande recessione, e questa sofferenza sta mettendo a dura prova la coesione sociale, già minacciata da terrorismo e dintorni. La Francia, come l’Italia e altri Paesi, si avvia a essere un Paese multi-etnico: la popolazione musulmana è più alta che altrove (nel 2014, 9,6%) e la scarsa crescita ha esacerbato le tensioni. Il livello di (buoni e costosi) servizi pubblici e il rallentamento del gettito fiscale legato alla crescita bassa ha mantenuto il deficit pubblico a livelli superiori ai limiti europei. Ogni tentativo di ridurre la spesa per i servizi pubblici o di allentare la pesante regolamentazione del mercato del lavoro provoca rigetti da parte dell’opinione pubblica.

Il “modello francese” è quindi in bilico. Tensioni e frustrazioni hanno dato forza a movimenti populisti, anti-euro e anti-immigrati. Se alle prossime elezioni questi movimenti dovessero prevalere, l’asse franco-tedesco, che è stato finora il principale collante della costruzione europea, potrebbe cedere, con gravi conseguenze.

© Riproduzione riservata