Alessandro Manzoni, uomo da non sprecare tempo e inchiostro, indirizzava al Fauriel lettere anche di otto o nove pagine. Nei tempi nostri dominati dall’ossessione o dalla costrizione alla velocità nello spazio e nel tempo, una email non supera le dieci righe ed è destinata a durare lo spazio di un mattino. I nostri epistolari supereranno certamente in numero le migliaia di missive di Erasmo da Rotterdam e di Voltaire. Ma finiranno anzi già finiscono giornalmente non in mani gentili ma nel Cestino del PC.
Frenesia e hanno scavalcato e votato alle ortiche persino la stenografia, insegnata fino a pochi anni fa a ragionieri e a segretarie aziendali dopo essersi sviluppata in diversi modi per due millenni, dai tempi di Tirone segretario di Cicerone e nel Seicento razionalista e razionalizzante, soprattutto in Inghilterra e in Francia. Ne fece uso Newton e ci rifletterono Cartesio e Bacone.
Perciò in un convegno tenuto a Rovereto nel maggio del 2014, di cui ora escono gli Atti, ci si è occupati dei Sistemi tachigrafici dall’antichità a Twitter. Nei saggi finali si esaminano le caratteristiche del linguaggio della CMC (per il profano: Comunicazione Mediata dal Computer), derivate appunto dall’esigenza della rapidità dell’esecuzione e della lettura e dai limiti spaziali, in cui anglicismi e gerghi sintetici si alternano a sigle criptiche o geniali.
Eppure, come osserva Patrizia Bertini Malgarini e Ugo Vignuzzi in apertura del loro intervento su Abbreviare nel mondo digitale, la CMC (vedi sopra) «ha scompigliato le carte dei linguisti» riportando l’attenzione degli studiosi sullo scritto dopo un periodo di forte prevalenza del parlato nella comunicazione mediante telefono, radio, televisione.
Dopo di che si può intendere come molti degli interventi precedenti in questo Scriver veloce siano epicedi delle tachigrafie tradizionali e della pazienza degli antichi iniziati a quell’arte, a cui si deve la sopravvivenza di documenti importantissimi, orazioni di retori e di politici e opere teatrali còlte dalla recitazione degli attori o dalla copiatura di contrabbando del copione del suggeritore, come nel caso delle prime redazioni di alcune tragedie shakespeariane.
Quando pure non raggiunsero, quegli inventori e praticanti della scrittura veloce, ambizioni e vette ideologiche. Il vescovo John Wilkins, membro della Royal Society di Londra a metà Seicento, su cui si sofferma Francesca Chiusaroli in Scritture brevi e velocità, elaborò in nome della velocità ma anche di una certa perspicacia mentale un progetto di lingua universale artificiale ma perfetta, adatta a una trascrizione sintetica mediante segni semplici ed essenziali leggibili in tutte le lingue del mondo. Non solo scompose per questo le parole, ma fissò categorie concettuali riconducibili a segni simili fra loro, in una catena che scende dal Trascendentale a Dio, Mondo, Uomo, Minerale, Metallo e quindi Vegetale, Animale, categorie tutte esprimibili con varianti di un unico segno: la lineetta.
Se questa dunque è la parte finale della storia della tachigrafia, l’inizio è nelle mani dei lapicidi greci e romani, poiché l’epigrafia impose ben presto la necessità di abbreviare i vocaboli (qui ne scrive Paolo Poccetti) su iscrizioni pubbliche e private. Ne sono investiti i nomi propri ed elementi lessicali sia nominali che verbali, in tale numero da non essere nemmeno quantificabile. Si va dalle iscrizioni votive alle sepolcrali, dal monumentale S.P.Q.R. ancora oggi vivo sotto gli occhi di ogni romano, al tombale V.C. per Vale coniux. Anche nella scrittura manuale si ricorse talvolta alla crittografia mediante il sistema alfabetico corrente: Giulio Cesare e suo nipote Augusto se ne servivano ricorrendo, ingenui, a usare semplicemente B per A, C per B ecc.; e pure il metodo continuò ad essere usato ampiamente per molti secoli.
Anche nei testi letterari, la trascrizione sulla pagina, con abbreviature e segni diacritici a scopo di velocità ed economia di spazio, comportava difficoltà di lettura. Trimalcione nel Satyricon di Petronio fatica troppo a leggerne a colpo d’occhio, pur possedendo due ricche biblioteche greca e latina.
Le parole tronche e le sigle per accelerare la scrittura col sistema tironiano, comportavano in effetti difficoltà per la lettura. Lo stesso Cicerone rilevò una volta ad Attico: «Quanto a ciò che ti scrissi sui dieci legati, ne hai capito poco probabilmente perché mi sono servito di abbreviature». Tanto più che a volte, osserva ancora Nicoletta Giovè Marchioli nel successivo intervento, s’introdussero anche abbreviature anomale e “molto severe”, riducendo parole a sigle: un T per tradita o PAT per patrimonium. A sua volta il cristianesimo apportò una nuova necessità di arrangiare scritture di vocaboli e dare forma a espressioni nuove. Si pensi solo al diffuso cristogramma con le lettere greche XP (Ch e R).
Passata la cultura nelle mani dei monaci e nelle scuole di grammatica, le esigenze e i metodi mutano nei sistemi ma non nella sostanza. La ricostituzione delle biblioteche e l’alto costo delle pergamene imposero e diffusero i più vari tipi di abbreviazioni, in un crescendo che giunge in alcuni codici fino a nove o dieci nella medesima linea. Esse si trasmettono all’Umanesimo e alla stampa, dove l’ansia l’economia non urgevano meno. Un paio di contributi nel volume Scriver veloce si occupano di questo periodo; per poi passare la parola a Edoardo Barbieri, che sotto il titolo di La “contractio” del piombo fornisce alcune note su abbreviazioni e tipografia nel Rinascimento italiano, quando nella diffusione ancora più vasta della cultura e nella crescente richiesta, il sentimento e l’idea primitiva dei tipografi non fu quella di creare alcunché di nuovo, bensì di moltiplicare intanto i manoscritti. Dai quali in effetti la differenza nella riproduzione tipografica non fu vistosa; si pensi semplicemente alla persistenza delle forbite e spesso gustose lettere iniziali dei capitoli, incorniciate e riproducenti miniature quali nei codici medievali e umanistici anteriori. Anche Barbieri fornisce una sua statistica: si può stabilire che in un libro di allora ogni 40 caratteri uno sia abbreviato, con la frequenza dunque del 2,5 per cento.
Per entrare nella biblioteca di questi uomini nuovi ed esaminare i loro codici, nulla di meglio di una ricerca condotta da Irene Ceccherini, docente di Paleografia latina, all’interno di un progetto sostenuto dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia per la valorizzazione della personalità più importante della cultura pistoiese quattrocentesca: Sozomeno da Pistoia. Scrittura e libri di un umanista.
Sozomeno fu il nome d’arte grecizzante di Zomino di ser Bonifazio, canonico della cattedrale di Pistoia e maestro di grammatica a Firenze, compagno di Bracciolini al Concilio di Costanza. I suoi estremi cronologici (Pistoia 1387-1458) lo pongono nel punto di raccordo fra la cultura tardomedievale e i primi impulsi della modernità rinascimentale; estremi che si riflettono nella sua biblioteca e nella sua scrittura, umanistica elegante o corrente, in cui usa anch'egli in ogni caso le abbreviature di rito: ê per est, gnê per genere, hôes per homines, hrê per habere, mô per modo…
Il professore si è provvisto dei testi occorrenti all’insegnamento, su pergamena o su carta; trascritti, restaurati, li ha postillati; le sue glosse si snodano sui margini, spesso ne straripano e s’interpongono nei testi stessi. Si ritrovano qui Cicerone, Isocrate, Quintiliano; molto Virgilio, Orazio, Seneca; Plutarco, poco Platone, molto Aristotele; esigui i cristiani, poca Bibbia; dei moderni le Genealogie degli dèi gentili di Boccaccio, Poggio Bracciolini e Leonardo Bruni.
Sulla prima pagina di un Virgilio, ora alla British Library e qui visibile nell’inserto con riproduzioni di codici, nel primo verso delle Bucoliche: Tytire tu patulae recubans sub tegmine fagi, a patulae è soprascritto apertae, nel margine è trascritto il commento di Servio ed è spiegata l’etimologia di Titiro, mediante il termine greco turòs = caseus, il formaggio.
Di suo, Sozomeno lasciò commenti a poeti latini: Orazio, Ovidio, Persio, Seneca tragico. In una pagina qui riprodotta di un suo commento e di sua scrittura alle Satire di Giovenale, ora alla Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, l’accumulo successivo di altre nozioni riempie tutti i margini disponibili. Dopo aver scritto che la Satira Sesta verte sulla lussuria e soprattutto intende criticare gli ipocriti, appone successivamente l’etimologia greca di questo termine e a ipocriti aggiunge «soprattutto i filosofi». Questa la sua definizione dei Baccanali: «Festa del dio Libero Bacco, durante la quale si compiva impunemente ogni sorta di scelleratezze e si abusava delle matrone». A fondo pagina si legge questo appunto: «Filosofi Cinici: che filosofeggiano nudi; gli Stoici invece no».
Oltre a trascrivere dagli antichi retori manuali di retorica ed epistolografia, Sozomeno abbozzò grammatichette latine, in cui le coniugazioni verbali sono esemplificate come tuttora con amo -as, video -es, lego -is, audio -is. Compilò un lessico in cui incolonnò voci greche con le corrispondenti latine e talvolta italiane a fianco.
Conservò i suoi quaderni scolastici, che testimoniano la sua grafia, con trascrizioni fra ghirigori nei margini di testi antichi, cristiani e medievali o serie di versi e sentenze, nonché un galateo sulle belle maniere da tenere a tavola. Uno dei quaderni è datato giugno 1402, quando l’allievo è quindicenne.
Così nasce la biblioteca in età moderna; strumento di lavoro e anche tratto biografico e ritratto di chi la crea. L’eccezionalità fortunata di Sozomeno sta nel fatto che la sua, ora dispersa in biblioteche pubbliche e private di tutta l’Europa, si riesce a ricostruirla, e la si è ricostruita ora per tre quarti, con 86 codici su poco più di cento.
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