Cultura

Una stanza, due sorelle: delirio o viaggio salvifico? Chi è…

  • Abbonati
  • Accedi
la sperimentazione estrema di D’isa

Una stanza, due sorelle: delirio o viaggio salvifico? Chi è Therese

Lo confesso, quando ho cominciato a leggere la prima pagina di “La Stanza Therese” ho sbuffato. E non certo per l'inefficacia dell'incipit che anzi è un fulmine («Per vent'anni siamo state sorelle, per cinque amiche e per tre sconosciute»). Un colpo secco ed eccoci dentro. Dentro cioè la testa di Therese, misteriosa creatura votatasi alla clausura in una stanza d’albergo. No, ho sbuffato perché la struttura originalissima congegnata da Francesco D’Isa, evidente dalle primissime pagine, mi ha messo quasi sull’allerta.

Per la serie: artificio o creatività? C’è una sostanza in grado di far da bastone lungo un sentiero tanto impervio come quello su cui si è avviato l'autore? Questo tipo di costruzione è fine a se stessa? Seguendo queste domande vado avanti e per fortuna. Perché mi ci vuole davvero poco a capire che la scommessa di D'Isa (che si inserisce mi pare nel filone dei testi ergodici ) è vincente. Il testo costellato da disegni, citazioni al margina – come se il libro fosse un quaderno fitto di private annotazioni – calcoli , problemi matematici e successivi tentativi di soluzione - si ricompone oltre le parole attraverso le informazioni che arrivano da questo insolito quanto ricco corpus notae.

Corpus fondamentale per svelare il delirio di Therese (ma è davvero delirio?) che sceglie di essere una eremita dentro una camera d’albergo per affrontare un feroce, accorato e soprattutto definitivo corpo a corpo con la sorella. Lo fa attraverso lunghe, articolate lettere. Senza risposta, o meglio la sorella gliele rispedisce indietro cesellato però di annotazione a margine. Non dunque un epistolario ma un soliloquio, struggente e soffocante.

Così la scelta di una voce unica in uno spazio claustrofobico diventa un perfetta scelta narrativa per far sentire al lettore la stessa asfissia che probabilmente prova Therese.

Il vulnus è antico: la competizione tra sorelle. L'una vincente, o almeno trascritta come tale da chi, cioè la perdente, la percepisce in questo modo. L'altra vittima. La rievocazione del passato si snoda sui temi consueti: tu eri in questo modo, io in quest'altro. «Mi irritava come invidiavi i beni altrui, senza mai spingere le tue capacità senza mai spingere le tue capacità oltre un recinto di sicurezza; la diversità ti spaventava e l'hai soffocata con una mascherata di banalità». Al margine: «L'invidiosa eri tu». Ma le soluzioni narrative proposte da D’Isa rendono il conflitto fratricida ancora più sconvolgente ed incisivo.

Therese ricorda e spiega, allora pagina dopo pagina ci immedesimiamo nella sua fragilità e per quanto ci è chiaro che la sua è una visione parziale, patologica certamente (come potrebbe essere diversamente?) possiamo pure dire «Povera Therese». Salvo che ad un certo punto i ricordi si avvinghiano nelle rivendicazioni e la tenuta delle argomentazione prende a sfaldarsi. Così ci domandiamo: E se quanto accade fosse solo nella testa di Therese.

Una sorella vittima, un’altra aguzzina. Ma se così non fosse? Se la realtà ci restituisse un'altra verità. Nulla è certo, è definitivo. Ogni convincimento viene presto messo in discussione in un incalzare che segna il ritmo e l’evoluzione della narrazione. Fino al colpo di scena finale? Perché proprio quando ci chiediamo cosa sarà di Therese e delle sue ossessione si delinea un destino, qualcosa cambia le carte in tavola.

Cosa è accaduto veramente a Therese?

© Riproduzione riservata