Scrivere dell’ultimo libro di Ivano Porpora, Nudi come siamo nati - in libreria per Marsilio - , è come tentare di abbracciare il mare d’estate. Vorresti prenderne quanto più possibile di acqua, di sole, di luce. Afferrare tutto il bene possibile e vorresti provarci con tutte le tue forze. Ma, per quanto tu faccia, il mare è il mare e tu, con le tue “braccette”, puoi solo sperare che, a forza di tentare, un po’ di quella bellezza ti resti appiccicata addosso, soprattutto per i giorni d'inverno. E soprattutto dovesse capitarti di andare per quelle strade della bassa mantovana (Viadana) in cui Porpora è nato e in cui è nato ed ha vissuto anche il suo Severo.
Leggi una pagina e vorresti appropriartene in ogni sillaba. Perché, ecco, hai trovato una frase che ti spiega di te proprio quella cosa su cui forse mai avevi riflettuto ed ora è invece lì a rivelarti. Così, credi di esserci, hai nel cuore e nella testa la tua consapevolezza, salvo poi renderti conto che ancora no, ancora non puoi fermarti: c’è ancora dell’altro. Ed allora ci ficchi ancora di più i pensieri: ad ogni tentativo conquisti una porzione e al tempo stesso ti si apre un nuovo squarcio. E poi un altro ancora, e un altro.
Il libro si muove infatti per squarci e, ogni squarcio, è un pezzo di consapevolezza conquistata. Certo, lettore, un sforzo devi metterlo in conto perché la scrittura di Porpora non ha scorciatoie. Ma, quando sarai arrivato a pagina 331 e un po’ avresti voglia di prendertela con lui perché davvero non ti ha dato tregua e ti ha costretto a inerpicarti (volevi una corsetta e ti sei ritrovato ad allenarti per la maratona di New York), ti senti come al termine di un'avventura che in tutto e per tutto andava compiuta.
Questo è il motivo per cui a lettura conclusa mi è mancato il fiato.
Porpora ha raccontato di aver inseguito questo libro a lungo, c'era prima del suo esordio con Einaudi (La conservazione metodica del dolore, Einaudi 2012), cinque anni fa, c'è stato in mezzo durante gli anni in cui ha pubblica poesie, favole, ed ha insegnato scrittura. Un attraversamento di esperienze, l’esplorazione.
È evidente - ogni parola in queste pagine spesa segna questo inseguimento - che Porpora deve averci girato attorno a lungo, mescolato e rimescolato fino al momento in cui tutto si è compiuto tra le mani perfettamente cesellato. Quasi a dirgli: eccomi sono la tua storia
Il libro ruota attorno alle figure di Severo e Arsène. E su chi siano i due l’unica a capirlo veramente (mentre loro due chissà) è Anita, la compagna di Severo. Al punto che Anita, che ama Severo, finisce per portare il figlio di Arsène. Severo segna la sua incompiutezza: figlio incompiuto di un padre che avrebbe dovuto accudire (è malato, in sedia a rotelle) e con il quale invece comunica solo attraverso delle lettere, nonostante questo viva in un appartamento nello stesso condominio. E poi padre a sua volta del figlio del suo specchio (Arsène).
Dunque Severo ed Arsène, due pittori, due artisti. Il primo l’allievo, il secondo il maestro. Severo ignora i motivi per cui Arsène lo accetta come allievo . Poi scopriremo che certo centra il padre di Severo, ma non è poi così importante, la decisione nasce da una riconoscibilità che affonda altrove. Il rapporto: l’uno per costituirsi deve sprofondare e l’altro per ritrovarsi devo scomparire. Tra loro la creazione: il legame tra ciò che si è e il talento.
Nella seconda parte, la storia è nelle mani Arsène. Torniamo indietro alla sua infanzia, ai suoi anni in Francia. Un dolore e una colpa, e anche questa volta un rispecchiamento, l’assunzione di un dono e di una identità.
Il libro di Porpora è estremo, e per questo spossante, ma come potrebbe non esserlo una narrazione che cerca una risposta: di cosa ci componiamo?
Perché «ogni persona, anche io e te, è sempre più importante della propria storia», dice Arsène a Severo.
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