Cultura

L’isola delle lacrime in versi

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georges perec (1936 - 1982)

L’isola delle lacrime in versi

Sotto esame. Le masse di emigranti in attesa dentro la struttura di Ellis Island, in attesa di essere interrogati, inizio XX secolo
Sotto esame. Le masse di emigranti in attesa dentro la struttura di Ellis Island, in attesa di essere interrogati, inizio XX secolo

Nel 1978 uno scrittore accompagnò a Ellis Island un regista che voleva girare un documentario su quell’isolotto alla foce del fiume Hudson, di fronte a New York, dove tra il 1892 e il 1924 erano passati sedici milioni di persone provenienti da vari angoli del mondo: se la salute era buona, se sapevano rispondere all’interrogatorio e se, soprattutto, la fortuna era dalla loro parte quegli errabondi esseri umani venivano trasformati da emigranti in immigrati e potevano coronare il sogno di diventare cittadini americani. Quando lo scrittore arriva non c’è più molto da vedere: quei quattordici ettari a poche centinaia di metri dalla punta di Manhattan da tempo non sono più il cruciale punto di passaggio per l’american dream.

Sono stati prima adibiti a prigione, poi abbandonati ai saccheggiatori in cerca di bizzarri souvenir, infine trasformati in monumento nazionale. Ma lo scrittore non vuole solo ricostruirne la storia, non vuole solo documentare. Poiché lo scrittore è Georges Perec la domanda che si pone è un’altra: «Come afferrare ciò che non è mostrato, ciò che non è stato fotografato, archiviato, restaurato, messo in scena? Come ritrovare quel che era piatto, banale, quotidiano, quel che era normale, quel che accadeva tutti i giorni?». In tutte le lingue Ellis Island era chiamata «l’isola delle lacrime». Perec si mette a caccia di quelle lacrime. È così che il testo che accompagnerà il film di Robert Bober diventa non la documentazione della vicenda storica del luogo, ma il racconto di ciò che si vede in quello che non si vede, per trasformarsi poi in uno straordinario breve poema, un cantico dell’abbandono in versi liberi, che è una delle ultime opere compiute o forse l’ultima dello scrittore francese morto di lì a poco, nel 1982 a quarantasei anni. Ora, nella perfetta traduzione di Maria Sebregondi, le edizioni Archinto lo ripropongono, mentre nel nostro Paese capiamo meglio – o cerchiamo non sempre con successo di capire – che cosa significa quel passaggio cruciale che trasforma gli emigranti in immigrati.

Perec, in quel vasto deposito di rovine abbandonate, afferra perfettamente il senso di questo passaggio partendo da pochi dati: il pasto che consiste in pane e aringhe, il numero di ore che comporta la modalità di ispezione (da tre a cinque), il numero dei suicidi: «dal 1892 al 1924 ci sono stati tremila suicidi a Ellis Island». Ci sono poi altri numeri: i milioni di emigranti dai singoli paesi (cinque dall’Italia, sei dalla Germania, quattro dall’Irlanda…) e i nomi dei porti, delle compagnie di navigazione coinvolte, dei piroscafi che attraversavano accanitamente l’Atlantico con quell’ammasso umano nella stiva, sotto la linea di galleggiamento, nomi bellissimi e promettenti: il Bohemia, il Polynesia, l’Umbria, il Lusitania, il Giuseppe Verdi... Ma stavolta a Perec l’arte della enumerazione, l’evocazione dei nomi non servono a esplorare l’enigma del linguaggio e delle parole e le loro misteriose e rivelatrici combinazioni. Mentre la prosa si fa poema, con i suoi spazi di silenzio e sospensione, qui si tratta d’altro: «sotto la sistemazione ufficiale di questi oggetti quotidiani/divenuti oggetti da museo, vestigia rare, cose storiche, immagini preziose,/sotto la tranquillità fittizia di queste fotografie fissate/una volta per sempre nell’evidenza ingannevole del loro/ bianco e nero,/ come riconoscere questo luogo?/ restituire ciò che fu?/come leggere queste tracce?». Ecco dunque Perec, il maestro degli elenchi, affrontare un nuovo tipo di lista: «atri, uffici, camere, lavanderie, gabinetti, stanzini, sgabuzzini», e poi decine di sale, corridoi , scale e panche, ma soprattutto «un coacervo informe, residuo di trasformazioni, di demolizioni», cioè frammenti di vita in «cumuli eterogenei, mucchi di grate, pezzi d’impalcature, ammassi di vecchi proiettori, tavoli, armadi e schedari arrugginiti, montanti di letti, pezzi di legno, banchi...». E una misera infinità di oggetti perduti di uso quotidiano, che siano un libro di cantici o una vecchia caffettiera, a disegnare la figura sfuggente di un groviglio «di attese, di rischi, di entusiasmi, di energie...».

Poi il racconto dello scrittore francese non solo rinuncia alle finte certezze della documentazione oggettiva ma diventa personale, duramente autobiografico: «quel che io, Georges Perec, sono venuto a interrogare qui,/è l’erranza, la dispersione, la diaspora./Ellis Island è per me il luogo stesso dell’esilio,/vale a dire/il luogo dell’assenza di luogo, il non luogo, il da/ nessuna parte». Ciò che Perec trova nel «luogo-discarica» non sono dunque tracce, ma «qualcosa d’informe, al limite del dicibile», qualcosa di simile a una frattura e che è per lui «molto intimamente e molto confusamente /legato al fatto stesso di essere ebreo». Figlio di ebrei d’origine polacca, il padre morto in guerra nel ’40 quando Georges aveva tre anni, la madre deportata e uccisa forse ad Auschwitz poco dopo, considera il passato una terra incognita: si chiede «che cosa mi comporti l’essere ebreo», per poi rispondersi : «si tratta piuttosto di un silenzio, un’assenza», o «un’incertezza, un’inquietudine». Questo silenzio, questa inquietudine è ciò che trova e racconta nel viaggio nell’ «isola delle lacrime», non un luogo riservato agli ebrei, ma «a tutti coloro che dall’intolleranza e dalla/ miseria sono stati cacciati e ancora vengono cacciati/ via dalla terra dove sono cresciuti». Ellis Island dunque come luogo eterno, un’avventura destinata a rinnovarsi, al cui centro ci sono due parole «molli, irreperibili, instabili e sfuggenti», due parole sole: «l’erranza e la speranza».

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