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Quanto è ibrido questo romanzo

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la letteratura circostante/3

Quanto è ibrido questo romanzo

Domenica scorsa abbiamo identificato nella velocità una delle dominanti formali della letteratura circostante. Servirsi di un ritmo narrativo serrato serve innanzitutto per far risparmiare tempo a un lettore sempre meno interessato alle descrizioni, alle analisi, al lento svilupparsi di situazioni e personaggi.

Più in generale, però, abbiamo visto che scrivere veloce serve a scavalcare i recinti della letterarietà stessa, che convenzionalmente si identifica con la lentezza (e con la durata, e con la profondità). La velocità, nelle sue diverse declinazioni stilistiche, pare insomma l’ingrediente essenziale di una formula estetica che metta il lettore in contatto con il maggior numero possibile di elementi, temi e scenari non letterari. L’altra faccia di una letteratura sempre più veloce è dunque una letteratura sempre più ibrida, ansiosa di contaminarsi con linguaggi, nodi, ambiti e spesso anche supporti diversi: i suoni, le immagini. Mentre la modernità viveva soprattutto del progetto di arti autonome (e del sogno, o utopia, di un’opera d’arte totale), oggi l’ipermodernità invita linguaggi estetici lontani a collaborare tra loro, a sostenersi l’un l’altro, a uscire dai propri mondi specializzati e circoscritti per confluire nell’ambito più vasto e inclusivo della comunicazione.

L’ibridazione è infatti, come la velocità, una caratteristica della comunicazione di massa; come la velocità serve a surrogare i limiti spettacolari della letteratura lenta, profonda e «solo scritta» cui ci aveva idealmente abituato la cultura moderna. Come la velocità, infine, anche l’ibridazione diventa culturalmente egemone a partire dagli anni Novanta. Nel 1996, ad esempio, un professore di inglese di nome Gordon Ball comincia a raccogliere firme per sostenere la candidatura di Bob Dylan al Nobel per la letteratura. Venti anni dopo Dylan vince effettivamente il premio, preceduto nel 2015 da Svjatlana Aleksievič, autrice acclamata di reportage e libri d’inchiesta. Come ha notato Walter Siti, le due affermazioni sono solidali tra loro: tanto Aleksievič quanto Dylan valorizzano parole non letterarie - la canzone pop, il giornalismo d’inchiesta - che incontrano la letteratura per rafforzarla e rafforzarsi. Entrambi segnalano che nel profluvio attuale di storie la letteratura tradizionalmente intesa – quella «solo scritta» che è la nostra da cinquecento anni almeno - fa sempre più fatica a bastare a se stessa, e che torna a pensarsi come forma espressiva da integrare ad altre forme. Più o meno così la si pensava e praticava in epoca classica, ad esempio, o nel medioevo, quando era normale si contaminasse con la melodia o la pittura. Ma adesso tutto avviene in un contesto tecnologico e di rete, abituato a esercizi mixed media e a inedite miscele tra vero e falso. Qualcosa di antico e già noto ritorna insomma in un contesto inedito, ultracontemporaneo; come è contemporaneo il sospetto, sempre più diffuso, che le convenzioni letterarie, da sole, siano diventate insufficienti, per non dire impotenti; non per difetto, ma per eccesso di spessori. E che per sopravvivere debbano sciogliersi in convenzioni d’altro tipo, più immediate e leggere, meno ambigue, impegnative e ingombranti. La narrativa si infiltra dappertutto, perfino nella politica, ma al tempo stesso tutto si infiltra nella narrativa, spesso zuccherandola e annacquandola.

Se proiettiamo quest’ordine di riflessioni sulla letteratura circostante sarà facile trovare numerosi esempi della contaminazione in corso. Mentre fumettisti affermati come Gipi o Zerocalcare e registi cinematografici come Paolo Sorrentino corteggiano con successo la scrittura letteraria, un romanziere da sempre attratto dal fumetto come Niccolò Ammaniti scrive un graphic novel, gira un documentario, sceneggia videogiochi e serie tv. Ma non si tratta tanto di praticare arti diverse, né di fondere diversi generi discorsivi (o letterari, come nella moda attuale dell’autofiction, che incrocia il romanzo all’autobiografia). Si tratta di non precludersi nessuna potenzialità espressiva, mescolando, se occorre, tutti i segni: parole, suoni, immagini. C’è una parte della nostra scrittura più sperimentale che guarda alla videoarte, alla fotografia, al catalogo, alla musica da ascensori; artisti nati in ambito letterario che si allontanano progressivamente dai libri, attratti da installazioni solo parzialmente fatte di parole scritte. Molti poeti cosiddetti di ricerca trafficano oggi non solo con la prosa meno lirica che si possa immaginare (Inglese, Broggi, Bortolotti), ma anche con le sonorizzazioni e con le immagini (Biagini, Pugno, Giovenale, Gualtieri): lavorano a opere a tutti gli effetti multimediali, da eseguire più che da leggere, che spesso non sembrano poesia né vogliono sembrarlo. Ma anche in ambienti letterari più convenzionali è diventato comune servirsi di segni integrati - per esempio allegando alla scrittura foto, disegni, bozzetti o storyboard. Lo fanno narratori non particolarmente tentati da velleità sperimentali, come ad esempio Alessandro Piperno, Emanuele Trevi, Melania Mazzucco e Simona Vinci. Ma proprio come la velocità, anche l’ibridazione attrae narratori di tutte le età, inclusi quelli sopra i sessanta. Una foto di Palazzo Donn’Anna sta al posto di un apologo tra le pagine dello Stile dell’anatra di Raffaele La Capria; Autopsia dell’ossessione di Siti e Leggenda privata di Mari costruiscono un dialogo tra parole e foto. Dai disegni di Giacinto Magrelli il figlio Valerio è partito per scrivere Geologia del padre, mentre l’appendice di Scherzetto – l’ultimo libro di Starnone – raccoglie alcuni schizzi di Dario Maglionico, attribuiti però al protagonista del racconto (che in effetti fa l’illustratore); in Questa e altre preistorie di Francesco Pecoraro le parti scritte si alternano a schizzi (d’autore) passati allo scanner.

Questa e altre preistorie appare in una collana, «Fuoriformato», specializzata in testi ibridi: opere verbo-visive, come quella di Pecoraro, o a tecnica mista - versi, prosa, foto, disegni e bozzetti - come Nel Gasometro di Sara Ventroni; o anche audio-verbali, come L’esercizio della lingua, di Lello Voce. Prima e dopo «Fuoriformato» sono emerse collane di poesia sistematicamente dotate di supporti audio, come «In Versi» di Bompiani, negli anni Novanta, e oggi «Inaudita» di Transeuropa: segno che a venire sollecitato è tutto l’ambito della sonorizzazione, dall’esecuzione ad alta voce alle semplici citazioni musicali, fino all’interazione con altri media. Morto esattamente un anno fa, Tommaso Labranca ha condensato un po’ di tutto questo in un libro singolare pubblicato nel 2006 e intitolato Il piccolo isolazionista. Ispirato alla riproduzione digitale della musica elettronica - in copertina c’è un iPod - il libro di Labranca ospita anche foto e disegni di paesaggi urbani; è una specie di trattato sulla solitudine che racconta un materiale eterogeneo ma condiviso – immagini e suoni della comunicazione di massa - e che fa dell’ascolto random tipico del digitale un modello compositivo: Il piccolo isolazionista è costituito infatti da schede rapide e intercambiabili, legate a temi diversi, spesso a veloci e irrelate osservazioni dal vero. Il che ci ricorda un altro aspetto, forse il più importante e strutturale, dell’attuale bisogno di ibridare: la tendenza a spezzettare il testo in una serie di segmenti narrativi brevi, modulari, disponibili a far spazio a pezzi altrettanto brevi e per così dire «già pronti», spesso di natura extraletteraria, veri o finto-veri. Nella letteratura circostante si moltiplicano gli inserti, gli allegati, le appendici, esattamente come si moltiplica il bisogno di effetti di realtà. Spesso si tratta di documenti o discorsi riportati – poco importa se inventati o autentici - che interrompono la continuità narrativa dell’opera per far sentire al lettore il sapore concreto del vero: di qui, anche, la fortuna dell’inchiesta, del pamphlet e del diario come spazi-contenitori di storie e dati grezzi. Esemplari in tal senso i libri di Antonio Franchini, nei quali al racconto di aneddoti personali è integrato il ricorso a materiali misti come pezzi di interviste, articoli, verbali di polizia (L’abusivo), foto (Gladiatori), o ancora carteggi, schede di lettura e notizie di archivio (Cronaca della fine). Tecniche simili ricorrono, com’è facilmente immaginabile, in tutto l’universo, oggi molto frequentato, della scrittura cosiddetta di non fiction, ai confini col giornalismo vero e proprio: dai primi esperimenti di Veronesi e Bettin, nei cruciali anni Novanta, alle prove successive di Pascale (La città distratta), Albinati (Maggio selvaggio) e poi Saviano. Ma è ancora più interessante constatare che analoghe costruzioni modulari e finto-vere siano al centro di alcune delle più interessanti opere d’invenzione della letteratura circostante: da Lettere a nessuno di Antonio Moresco a Fiction di Giulio Mozzi, da Il Duca di Mantova di Franco Cordelli a Città distrutte di Davide Orecchio.

Terzo di una serie di articoli.
I precedenti sono stati pubblicati
il 30 luglio e il 6 agosto 2017

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