Paul Schrader torna grande alla Mostra di Venezia: l'importante autore americano, classe 1946, ha presentato in concorso il suo ultimo lavoro, «First Reformed», uno dei titoli più significativi della sua intera carriera.
Lo storico sceneggiatore di «Taxi Driver» ritrova lo smalto dei suoi lavori migliori (si pensi, tra i tanti, a «Hardcore» del 1979 o a «Mishima – Una vita in quattro capitoli» del 1985) con un lungometraggio che può essere considerato a tutti gli effetti la summa della sua poetica.
Protagonista è Ethan Hawke nei panni di un pastore di una piccola chiesa, devastato dalla perdita del figlio che lui stesso aveva incoraggiato ad arruolarsi nelle forze armate.
La sua fede verrà ulteriormente messa a dura prova quando la giovane Mary e il marito Michael – un ambientalista radicale – si rivolgono a lui in cerca di aiuto.
Dopo aver diretto tre film con più detrattori che estimatori («The Canyons», «Il nemico invisibile» e «Cane mangia cane»), Schrader firma un prodotto solidissimo, che guarda addirittura a «Il diario di un curato di campagna» di Robert Bresson, sia per alcune scelte narrative, sia per un rigore stilistico degno del grande autore francese.
Fin dalla primissima inquadratura, in cui ci si avvicina lentamente alla chiesa che sarà teatro di diverse sequenze successive, si coglie facilmente come l'apparato visivo sia fortemente studiato tanto nel gioco delle luci quanto per la composizione delle singole immagini.
Notevole è anche il lavoro sul sonoro, ma ciò che forse colpisce maggiormente è l'analisi psicologica che Schrader fa sul suo personaggio principale, un uomo tormentato che sta cercando di dare un nuovo senso alla sua esistenza.
La carne al fuoco è molta (dalla fede ai temi ecologisti), ma il regista riesce a dosare al meglio tutti gli ingredienti e anche la conclusione (accompagnata da una canzone che rimanda a un altro capolavoro: «La morte corre sul fiume» di Robert Mitchum) è potente al punto giusto.
È un film che difficilmente può lasciare indifferenti e che potrebbe trovare un posto nel palmarès di fine festival. Parte del merito va anche a uno straordinario Ethan Hawke, autore di una delle performance più importanti della sua carriera.
Altrettanto ambizioso è «Zama» di Lucrecia Martel, film presentato fuori concorso.
Al centro c'è un ufficiale della Corona spagnola nato in Sud America, che attende una lettera del re che gli conceda il trasferimento dalla città in cui è relegato a un posto migliore. La situazione è delicata: deve assicurarsi che niente sia d'ostacolo al trasferimento, per cui è costretto ad accettare docilmente ogni compito assegnatogli dai vari governatori che si alternano in città, mentre lui rimane sempre bloccato nello stesso posto. Gli anni passano e la lettera del re non arriva.
Nove anni dopo «La mujer sin cabeza» l'argentina Lucrecia Martel torna a firmare un lungometraggio di finzione e punta su una pellicola dal taglio storico ispirata a un romanzo di Antonio Di Benedetto.
Le suggestioni non mancano e colpiscono soprattutto le immagini dei paesaggi e il fascino per una vicenda indubbiamente interessante. Peccato che il ritmo non sia sempre quello giusto e la prima parte sia troppo lunga per poter colpire come avrebbe dovuto. A seguire Il film si rialza ma rimane comunque un prodotto altalenante, meno incisivo di quanto ci si potesse aspettare.
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