Cultura

Rivoluzione, ovvero certezza di tirannia

  • Abbonati
  • Accedi
libertà e uguaglianza.la rivoluzione russa e il novecento

Rivoluzione, ovvero certezza di tirannia

Tirannia e oppressione: il gulag di Vorkuta (1932-1962), nella Siberia del nord, uno dei simboli del terrore staliniano
Tirannia e oppressione: il gulag di Vorkuta (1932-1962), nella Siberia del nord, uno dei simboli del terrore staliniano

Il filosofo e politologo statunitense Michael Walzer, autore del testo qui pubblicato, sarà uno degli ospiti di «900 fest», il Festival organizzato a Forlì dal 4 al 7 ottobre e dedicato a «Libertà e uguaglianza. La rivoluzione russa e il Novecento».

Libertà e uguaglianza. Questi sono due tra i concetti più dibattuti del pensiero politico. Ma la relazione tra i due non viene, a mio modo di vedere, sufficientemente discussa. È opinione abbastanza comune che libertà e uguaglianza siano in conflitto o che, perlomeno, vi sia tra i due una tensione tale che ogni società umana deve essere o più libera o più egualitaria. La spiegazione che sta dietro un conflitto di tale natura ha due varianti, una di sinistra e una di destra, e ciascuna è in parte corretta ma principalmente sbagliata. Voglio cominciare dalla versione di sinistra, che è stata enunciata molto, troppo spesso, nella storia delle politiche rivoluzionarie. È particolarmente importante, per il progetto politico che sostengo, convincervi che la versione di sinistra secondo cui libertà ed eguaglianza sono incompatibili è davvero sbagliata.

Prendo spunto da una frase di Albert Camus, che credo sia tratta da L’uomo in rivolta: «Il grande avvenimento del Ventesimo secolo è stato l’abbandono da parte dei movimenti rivoluzionari dei valori della libertà». Una frase potente. Aggiungerei: non soltanto del Ventesimo secolo, poiché i Giacobini del Diciottesimo secolo sono stati il primo movimento rivoluzionario ad abbandonare i valori della libertà. I movimenti rivoluzionari hanno prodotto, e l’hanno fatto in continuazione, regimi tirannici, e li hanno sostenuti con la brutalità e il terrore. Com’è possibile questo, dato il significato che noi (a sinistra) diamo alla parola “rivoluzione”? Ci aspetteremmo una rinascita della libertà, così come la creazione di una società di eguali. Ma la difesa della tirannia da parte dei rivoluzionari inizia con la convinzione che queste due aspettative non vadano assieme. Conosciamo tutti quest’argomentazione; alcuni di noi, ne sono certo, l’hanno espressa una volta o l’altra, perché ci sono sempre stati molti difensori, o apologeti, di varianti di sinistra della tirannia e del terrore. Il potere costituito, che si è trincerato, la forza delle strutture gerarchiche, la lunga storia di deferenza da un lato e arroganza dall’altro; tutto ciò può essere sfidato solamente -così vuole questa argomentazione- schierando l’ariete di uno stato forte, in pratica di uno stato tirannico. Parliamo di uno stato che travolge tutti i vincoli legali e costituzionali del vecchio regime, che rimanda l’adempimento alle promesse della rivoluzione, che ritira la chiamata alle urne o consente a un solo partito di esprimere candidati, e che poi incarcera i compagni che denunciano quanto sta accadendo -tutto questo sulla strada per raggiungere l’uguaglianza. Al contrario -così prosegue il ragionamento- gli uomini e le donne preoccupati per la tirannia, i progressisti che non alzano la voce e i timidi socialdemocratici non riusciranno mai a creare una società di uguali. Manca loro quella rozza energia e la necessaria brutalità. Non faranno che scendere a compromessi, all’infinito, e non riusciranno mai a raggiungere la trasformazione radicale che fingono di auspicare. Servirà un'avanguardia determinata, un Leader Maximo, per distruggere il vecchio ordine sociale.

Lenin parla alla folla a Mosca nella Piazza Rossa. OLYCOM

In questa accezione, l’eguaglianza richiede la sospensione (che sempre si vorrebbe temporanea) delle “libertà borghesi” quali la libertà di parola, di assemblea e il diritto di opposizione. Una volta che la rivoluzione ha inizio, la regola diventa: ogni opposizione è controrivoluzionaria. Un visitatore di Cuba nel 1960, poco dopo la rivoluzione, illustrò così questa regola: «Le carceri sono state riempite di prigionieri politici, e il governo insiste che il popolo dev’essere “limpido”, e cioè, al 100% favorevole a tutto ciò che esso fa». L’insistenza su questo tipo di “limpidezza” è un luogo comune rivoluzionario.

Un altro argomento si collega a questo, e forse ne è il fondamento. Il raggiungimento dell’uguaglianza non può essere il risultato di una campagna politica che rispetti la libertà democratica perché il demos, il popolo, non capisce ancora il valore dell’uguaglianza; molti non riescono a immaginarsi come uguali ai propri padroni; non parteciperebbero alla campagna per l’uguaglianza. A dire il vero, sono capaci di occasionali rivolte, come nelle jacqueries medievali, guidati da un lampo di consapevolezza: «Quando Adamo zappava la terra ed Eva filava, chi era allora il padrone?». Ma più spesso, è fin troppo chiaro chi siano i padroni. La classe lavoratrice è cresciuta in un mondo gerarchico; è abituata alla routine e conosce il linguaggio della gerarchia; le è stato insegnato che la disuguaglianza è naturale, risponde all’ordine divino; è divenuta un aspetto della sua vita quotidiana. I lavoratori sono vittime della “falsa coscienza”.
La teoria della falsa coscienza sta alla radice dell’argomento a favore del governo dell’avanguardia, perché ciò che la distingue e le dà la capacità di prendere il potere e governare senza opposizione è appunto l’essere in possesso di una vera coscienza.

È la fiducia prodotta dal conoscere la verità sulla storia e sulla società a dare all’avanguardia la determinazione necessaria per scardinare l’ordine esistente, utilizzando tutta la forza utile a tale scopo. Non vi descriverò come le avanguardie vengono incorporate o rimpiazzate dai Leader Massimi; di fatto, sono entrambe versioni molto simili al governo della tirannia. Piuttosto, voglio domandarvi: ma governanti di questo tipo sono davvero necessari, o quantomeno utili, al raggiungimento dell'uguaglianza?

Volontari bolscevichi al lavoro in un centralino telefonico di Mosca, 1917. TASS / AFP

Come probabilmente vi aspettate, sosterrò che in effetti non sono né l’una né l’altra cosa. Ma per argomentare ciò non mi concentrerò sul fatto che le avanguardie e i Leader Massimi, nel lungo periodo, non ci conducono all’uguaglianza (anche se è vero). Intendo piuttosto affermare che ci portano all’immediata realizzazione della disuguaglianza. Ammetto che “immediata” potrebbe essere un termine troppo forte. Spesso c’è un momento di gioia rivoluzionaria in cui ciascuno è cittadino o compagno. «Era una benedizione esser vivi in quell’alba», scrisse William Wordsworth nel 1789, «ma esser giovani era un paradiso». Ad ogni modo, la benedizione di Wordsworth non è durata a lungo, e il momento del cameratismo è breve. Rapidamente sono subentrate nuove strutture gerarchiche e burocrazie rivoluzionarie. Voglio sostenere che queste sono conseguenze naturali e inevitabili della sospensione della libertà politica.

La prima disuguaglianza di un regime rivoluzionario è quella della conoscenza; i nuovi governanti sono depositari delle “posizioni ideologiche corrette”, e ai governati dev’essere insegnato cosa pensare. Pertanto tutti i mezzi di comunicazione e di istruzione devono essere confiscati e affidati a coloro che sono “limpidi” rispetto alla linea ufficiale. Ma la più grande disuguaglianza è quella del potere politico: i governanti hanno un potere soverchiante e i governati sono impotenti. Ugualmente impotenti: qui devo riconoscere l’effetto livellante della tirannia rivoluzionaria. Il tiranno, o l’avanguardia, insieme ai nuovi apparatchik, dominano una massa di donne e uomini spogliati di ogni potere.

Posso anche concedere che il regime rivoluzionario poiché è, dopo tutto, un regime di sinistra, migliori le condizioni dei membri più poveri della società. I governanti populisti dell’America Latina hanno promosso opere pubbliche, innalzato i salari minimi e investito denaro nei sussidi alimentari e per la casa finché i soldi non sono finiti; dopodiché, i poveri tornano poveri ancora una volta, e i Leader Massimi rimpiazzano la generosità con la repressione. Le dittature comuniste dell’Est Europa avevano istituito un welfare state di base, pur prevedendo privilegi per i membri del partito; avevano garantito la sicurezza del posto di lavoro, in fabbriche comunemente dirette da militanti di partito incompetenti. In nessun caso agli operai veniva permesso di costituirsi in sindacati indipendenti o in partiti politici per difendere i loro interessi così come li intendevano.

Dimostrazioni di piazza a Vladivostok, 1917. TASS/AFP

L’immediata istituzione della disuguaglianza politica è evidente a occhio nudo (per chi sia disposto a osservare), ma di rado se ne discute nella letteratura rivoluzionaria, che si concentra sulla disuguaglianza economica e sociale. Potrebbe essere vero che solo i governanti con poteri assoluti possono abolire i privilegi aristocratici e confiscare e ridistribuire la ricchezza capitalistica. Con una serie di decreti imposti brutalmente, possono cancellare il feudalesimo; possono socializzare l’economia capitalista e destinare fondi ai più poveri dei poveri. A quel punto -Marx ci insegna- dovremo per forza trovarci sulla strada giusta verso una società di uguali, perché la disuguaglianza politica non è che il riflesso di quella economica; se si abolisce l’una, l’altra cadrà. Se impieghiamo il potere statale per creare l’uguaglianza economica, ciò nel tempo porterà all’estinzione dello stato. Ma se è questo ciò in cui Marx davvero credeva, si sbagliava terribilmente, come abbiamo già avuto modo di scoprire molte volte. La disuguaglianza politica è, per così dire, indipendente, autonoma, e creerà sempre e immancabilmente nuove disuguaglianze in tutto l’ordine sociale.

Queste nuove disuguaglianze saranno sempre più difficili da superare a causa della pretesa del regime rivoluzionario di avere quella peculiare legittimazione che viene dal vero sapere –e anche dal suo supposto impegno a usare quel sapere per creare una società di uguali. «Il compito dell’intellighenzia –ha scritto Lenin- è rendere non necessari i leader dell’intellighenzia stessa». Ma una volta che gli onniscienti intellettuali si sono dichiarati necessari al “compito” di rendere se stessi non necessari, è molto difficile persuaderli che il loro compito è stato svolto, e che non c’è più bisogno di loro. Si aggrappano al potere esattamente come avevano fatto i loro predecessori. E a coloro tra noi che si sono opposti al regime, che si sono rifiutati di essere “limpidi”, non verrà riconosciuta alcuna credibilità. Presto diventeremo dei “dissidenti”, costretti a nascondersi dalla polizia segreta. E questa è una condizione di disuguaglianza molto pericolosa.

È abbastanza vero che i governanti progressisti e socialdemocratici, legittimati dal consenso, piuttosto che dal vero sapere, non riusciranno a soverchiare le gerarchie consolidate con altrettanta velocità o in modo altrettanto definitivo quanto possono fare le avanguardie rivoluzionarie e il Leader Maximo. Saranno costretti a muoversi più lentamente, perché dipendono dal consenso della gente, che non è mai completamente aderente alle posizioni ideologicamente corrette. Nondimeno, gli attivisti politici di quella tradizione che potremmo definire dei girondini/menscevichi, piuttosto che dei giacobini/bolscevichi, sono talvolta riusciti a ridurre le disuguaglianze nella sfera economica, senza creare discriminazioni in quella politica. Questo è un risultato cui dovremmo riconoscere il giusto valore, anche se richiede tempo, anche se è soggetto a rovesciamenti e anche se non condurrà mai a nulla che assomigli all’uguaglianza assoluta. I progressisti e i socialdemocratici, quando controllano la macchina statale, usano il potere regolativo dello stato democratico, contro i privilegi di nascita e di censo; parimenti importante, aiutano a creare e sostenere una società civile vitale e aperta, le cui associazioni, indipendenti dallo stato, possono contrastare la forza dei poteri costituiti. L’esempio chiave, nella storia della socialdemocrazia, è il potere di bilanciamento dei sindacati. Il risultato di una regolazione statale e di tale bilanciamento è una società più egualitaria di quella precedente e allo stesso tempo più libera.
Questa è una versione, senza dubbio modesta, di ciò che noi (a sinistra) ci aspettiamo da una rivoluzione e che otteniamo solamente da rivoluzionari di un tipo molto particolare, del genere girondini-menscevichi, che adottano una carta di valori cui intendono attenersi, o che combattono la controrivoluzione con lo stato di diritto, piuttosto che col terrore; e che si dedicano al lento lavorìo della politica democratica. Preso nel suo insieme, questo programma è spesso chiamato “riformista”, ma quella parola, nel nostro vocabolario, sottovaluta il significato politico e il valore morale delle alternative davvero possibili (anche se spesso fallaci) alla tirannia rivoluzionaria.

Ottobre 1917, un gruppo di soldati bolscevichi in posa a Pietrogrado. AFP PHOTOPIGISTE / TASS / AFP

Lasciate che vi esponga questo argomento con più forza: se ci concentriamo sul potere e sull’assenza di potere, le politiche della democrazia progressista e della socialdemocrazia sono capaci di molte più trasformazioni, rispetto a quelle di qualunque regime tirannico. La tirannia, anche quando i tiranni si autodefiniscono “di sinistra”, quasi sempre conduce a un risultato ben descritto in alcuni versi del poeta irlandese William Butler Yeats.

Hurrah for revolution and more cannon-shot!

A beggar upon horseback lashes a beggar on foot.
Hurrah for revolution and cannon come again!
The beggars have changed places but the lash goes on
.

[Urrà per la rivoluzione e viva il colpo di cannone!
un pezzente a cavallo frusta un pezzente a piedi.
Urrà per la rivoluzione e ritorno del cannone!
I pezzenti hanno cambiato posto, la frusta prosegue il suo corso
.]

Non è che la libertà politica garantisca una società di uguali; non la assicura, ma rende possibile lottare per essa e questa lotta è, passo dopo passo, la realizzazione di quell’uguaglianza. Invece, il governo rivoluzionario, la “dittatura del proletariato”, o qualsiasi altra dittatura, produce immediatamente disuguaglianza.

Effettivamente, la storia delle rivoluzioni ci insegna (e la storia universale ci conferma questo insegnamento) che c’è una precisa tendenza in tutte le società umane a produrre e riprodurre la gerarchia. Come scrisse Thomas Hobbes molto tempo fa, ovunque le persone, anche quelle di sinistra e i rivoluzionari, inseguono «potere su potere, ricchezze, onori [e] comando», benessere, fama, e potere politico.
Un certo numero di persone ottiene ciò che vuole creando tutte le disuguaglianze che conosciamo e con cui viviamo. Ciò che è più importante, queste stesse persone fanno del loro meglio per tramandare qualunque forma di potere abbiano ottenuto, ai propri figli, alcuni dei quali perdono quel potere mentre altri lo accrescono e lo tramandano a loro volta. E così le famiglie salgono e scendono, ma le relazioni gerarchiche vengono perpetrate nel tempo; in un modo o nell’altro, sono una caratteristica costante della vita umana. Le rivoluzioni destituiscono un sistema di relazioni gerarchiche e lo rimpiazzano con uno nuovo.

Se ciò è corretto, allora ciò che è necessario (da una prospettiva di sinistra) è una resistenza ferma o costantemente rinnovata. Storicamente, il classico agente di resistenza alla disuguaglianza non è il partito rivoluzionario, ma i movimenti di protesta: il movimento laburista, il movimento per i diritti civili, il movimento femminista, e via dicendo. Le ribellioni che hanno successo –o, più probabile, che hanno parzialmente successo- rendono la società più egualitaria, almeno per un po’. Ma questo tipo di risultati e, per la verità, gli stessi movimenti politici in generale, sono possibili solo in una società libera.

Rivoluzionari armati di fucile, ottobre 2017. Olycom

Ecco qui spiegato il legame cruciale tra libertà e uguaglianza. Certamente, la libertà è essa stessa un piacere: è una cosa buona sentirsi liberi, disporre della propria vita, fare scelte personali liberi da coercizioni esterne. Ma nel campo della politica, il valore della libertà è collettivo e moltiplica le opportunità: rende possibile mettersi assieme per combattere contro l’oppressione, per difendere la nostra dignità umana, per rivendicare uguale considerazione. Togliete la libertà politica, e l’uguaglianza diventa un progetto fallito. Le due cose vanno insieme.

Penso che, nel profondo, tutti noi comprendiamo questo, eppure ogni nuovo Leader Maximo che si definisce di sinistra può contare sul sostegno e sulla simpatia di una parte della sinistra. E una volta che è passato del tempo, e i ricordi delle brutalità dei regimi rivoluzionari si sono sbiaditi, ci vengono regolarmente presentate delle versioni revisioniste del loro lodevole egualitarismo.

Credo che questo sia comprensibile, dal momento che la storia delle politiche alternative che sto descrivendo e difendendo è fatta di vittorie e di sconfitte. La libertà consente soltanto un approccio graduale all’uguaglianza, e questo approccio viene frequentemente interrotto: due passi avanti, uno indietro o, talvolta, come in anni recenti, due passi indietro. Una politica libera è spesso, per gli attivisti egualitari, un’esperienza frustrante e la frustrazione fomenta le fantasie di una spallata che possa far vincere mettendo fine alla lotta. In realtà, la battaglia non ha fine. L’egualitarismo è un lavoro costante, e la libertà politica è la condizione necessaria per la sua (sempre incompleta) conquista.

Gli opinionisti di destra probabilmente concordano con la mia critica sull’abolizione della libertà politica, ma non è a questo che sono veramente interessati. Costoro credono che qualunque uso del potere statale volto a scopi egualitari, anche se motivati democraticamente, sia un attacco alla libertà, che per loro è principalmente, se non interamente, libertà economica. La libertà di produrre beni e scambiarli, di comprare e vendere, di prestare e dare in prestito, di tramandare beni materiali ai propri figli o di donarli, queste sono le libertà fondamentali. Nell’enfasi posta sulla sfera economica, i pensatori di destra si avvicinano a una concezione marxista della società, per quanto per loro sia lo scambio, e non il lavoro o la produzione, la forma centrale e più preziosa dell’attività umana.

In questa foto senza data, la zar Nicholas II, a sinistra, e suo figlio, il Principe Alexei, sono ritratti mentre tagliano la legna per riscaldare la loro abitazione in Siberia, dove erano prigionieri durante la Rivoluzione. (AP Photo)

Solo gli ideologi credono esista una singola attività che definisce chi o cosa noi siamo. Produrre e scambiare sono ovviamente attività importanti, ma lo sono anche il pensare e l’amare. Anche in queste ultime due si manifesta la tensione tra libertà e uguaglianza, e questo può aiutarci a capire come funziona tale rapporto. La libertà di pensiero e la libertà in amore, chiaramente, possono condurre a disuguaglianze. C’è chi prenderà un voto alto a scuola, e chi non lo prenderà. Alcuni sono in grado di comprendere la teoria delle stringhe, o la filosofia sociale, o la teoria queer, e altri no; e questi sono solo piccoli esempi delle disuguaglianze prodotte dal pensiero.

Allo stesso modo, alcune persone raggiungono l'oggetto del desiderio o l’amore di cui hanno bisogno, e altre no. Quella bella donna, quel bell’uomo mi può ignorare mentre non vede l’ora di fuggire con qualcun altro, e questo è solo un piccolo esempio della disuguaglianza che l’amore può produrre.
Eppure, la maggior parte di noi non è a favore di una regolamentazione del pensiero o dell’amore in nome dell’uguaglianza. Ci sono persone che sono a favore di una regolamentazione in nome della correttezza ideologica, o della morale puritana, ma quando si tratta del pensiero e dell’amore, quasi tutti scelgono la libertà rispetto all’uguaglianza.

Gli intellettuali di destra ribadiscono questa preferenza riguardo lo scambio, e quando metto in discussione questa loro preferenza, forse sto sostenendo che lo scambio non ha un ruolo così centrale nella nostra attività di esseri umani, se confrontato al pensiero e all’amore (ma questo è un argomento filosofico più profondo che non svolgerò in questa sede). In ogni caso, in nome del libero scambio, i teorici di destra sono sostenitori più accaniti dell’estinzione dello Stato di quanto non lo siano quelli di sinistra. In effetti, vogliono la “quasi estinzione” dello Stato, perché hanno bisogno di ciò che definiscono uno “Stato minimo”, per garantire i contratti, dirimere le frodi, prevenire il furto e reprimere le insurrezioni di sinistra. A parte questo, sono sostenitori del laissez-faire; si oppongono ad ogni interferenza dello Stato nella vita economica. Naturalmente, la libertà politica come l’ho descritta porterebbe a un’interferenza statale, qualora vincesse la sinistra. Nell’ipotesi di questa eventualità, la destra preferisce uno Stato così minimo da non poter essere utilizzato a scopi regolatori. Almeno in teoria, non ambiscono a limitare la libertà politica -anche se spesso finiscono per farlo; quel che davvero vogliono è rendere la politica irrilevante.
L’affermazione che la libertà economica è incompatibile con l’uguaglianza è vera. La tendenza generale e universale a formare gerarchie è molto evidente
in ambito economico, dove ampi processi di scambio, anche se volontari (in un certo qual senso), finiscono per produrre grandi accumulazioni di ricchezza da una parte e disperata povertà dall’altra, con tutto quello che sta tra i due estremi.

Soldati sotto lo slogan rivoluzionario “Lunga vita al popolo, terra, libertà e pace!”, febbraio 1917, Nikolayevsk-on-Amur, Far East russo. (AFP/RIA Novosti / Sputnik).

Dunque, per questa stessa ragione, col passare del tempo, la libertà economica si trasforma nel suo opposto. Gli scambi tra ricco e povero non sono mai veramente volontari; in effetti, si potrebbe dire che non sono mai liberi, e che la libertà economica di chi ha successo produce regolarmente la non-libertà economica di chi non ha raggiunto tale successo; una condizione che a sinistra si definisce “schiavitù salariale”.

I teorici del liberismo, come Robert Nozick, hanno riconosciuto l’esistenza di non-libertà nell’economia fondata sulla “libera impresa”. In un corso che abbiamo tenuto insieme molti anni fa, Nozick ha sostenuto che poiché il capitalismo, inteso come sistema di libero scambio, è un sistema economico giusto, una rivoluzione per instaurare il capitalismo negli Stati Uniti sarebbe altrettanto giusta. Ma una tale rivoluzione (questo lui non l’ha detto) potrebbe portare a qualcosa che è più di uno Stato minimo. E anche se conducesse a un sistema di libero scambio, si dovrebbe ben presto procedere ad un’altra rivoluzione, poiché il libero scambio porta sempre a scambi non volontari, per esempio quando chi possiede il capitale si trova a trattare con uomini e donne che non possiedono nulla. Parafrasando Thomas Jefferson, l’albero della libertà dev’essere di tanto in tanto rinvigorito con il sangue dei capitalisti, che ne rappresenta il concime naturale. Si potrebbe dire che lo scopo della regolamentazione socialdemocratica, è quello di evitare il bisogno di spargimento di sangue.

Thomas Jefferson (1743-1826), terzo presidente degli Stati Uniti

La mia posizione richiede un ulteriore ragionamento: proprio come la non libertà politica dà luogo a nuove gerarchie sociali ed economiche, così le gerarchie prodotte dal liberismo danno luogo a nuove forme di non-libertà: non tanto il governo di un’avanguardia o di un Leader Maximo, ma quello di oligarchi, o per meglio dire, di plutocrati.
La ricchezza ha molti usi nella sfera della politica: serve a corrompere funzionari statali, a controllare i media attraverso i quali viene trasmessa la conoscenza politica, a pagare le campagne elettorali di politici amici, e a creare organizzazioni della società civile ben foraggiate, che assumono un ruolo opposto a quello di bilanciamento dei poteri, chiamiamolo di sbilanciamento, perché rafforzano il potere costituito. Tutto questo determina una grave limitazione della politica democratica. La sinistra risponde con la mobilitazione di massa, per schierare i molti contro le ricchezze, nella speranza che, in un ambito politico aperto, i numeri conteranno. I plutocrati, invece, mirano a ridurre la partecipazione, e ad escludere quante più persone possibile dall’elettorato. Se saranno i molti a prevalere, la sinistra al governo regolerà l’economia e cercherà di ridurre le disuguaglianze economiche.

Ora, torniamo all’affermazione di alcuni di sinistra, per i quali solo uno Stato molto forte è in grado di portare a termine un progetto del genere. Gli opinionisti di destra usano lo spauracchio dello Stato forte, autoritario o totalitario, per difendere la propria visione liberista. Sostengono che l’unica alternativa alle differenze che il mercato produce è il tipo di livellamento creato da uno Stato tirannico. Ma si sbagliano, nello stesso modo in cui si sbaglia chi, da sinistra, difende la tirannia.
Lo Stato può regolare l’economia in molti modi differenti: dalle otto ore di lavoro al giorno ai piani quinquennali. La libertà economica può essere limitata in modi che lasciano molto spazio all’attività imprenditoriale e a scambi veramente liberi. In sé le limitazioni non sono tutte uguali: non è sempre necessario che lo Stato impieghi tutta la forza disponibile per limitare i singoli.

Contadini russi nel periodo della Rivoluzione. (AP Photo)

Prendiamo in esame un argomento tipico dei pensatori di destra ultraliberali, che la tassazione costringe il popolo a lavorare per lo Stato per un certo numero di giorni all’anno. È come la corvée dell’ancien régime francese, che era, letteralmente, un sistema di lavori forzati. Ma attenzione alla metafora: inviare un assegno all’ufficio delle imposte non ha nulla a che vedere con i lavori forzati nelle proprietà del Re. La differenza è verificabile in pratica ed è grande. Inoltre il lavoro forzato, a differenza della tassazione, non è mai istituito né imposto mediante un processo democratico. La leva militare, quella sì, potrebbe essere più plausibilmente paragonata alla corvée, anche se pure questa può (e dovrebbe) essere sottoposta al controllo democratico.
Dal punto di vista della libertà economica, il vantaggio della tassazione redistributiva è che presume che la libertà produca disuguaglianza, e la ammette, dopodiché interviene a correggere quella stessa disuguaglianza che ha reso possibile. È una specie di regolazione a posteriori. Possiamo facilmente immaginare regolamentazioni preventive che la maggior parte di noi non considererebbe lesive della libertà economica: leggi contro il lavoro minorile, leggi sulla sicurezza nelle fabbriche, regolamentazioni antimonopoliste -nessuna delle quali richiede un livello spaventoso di potere statale. Di questi tempi sono al centro dell’interesse e spesso contestati gli statuti del lavoro che rendono difficile licenziare i dipendenti, in realtà sono più un antidoto alla non-libertà economica (evidente nel potere arbitrario di padroni e manager) che una restrizione della libertà. Sarebbe forse preferibile se le regole del licenziamento fossero oggetto di trattative tra le aziende e i rappresentanti sindacali. Tuttavia contrattazioni come queste presuppongono sindacati forti, che hanno sempre richiesto il sostegno di governi progressisti o socialdemocratici -basti pensare al ruolo centrale della Legge Wagner nel contribuire alla crescita dei sindacati nelle fabbriche degli Stati Uniti. Certamente la Legge Wagner pone limiti al potere -e pertanto alla libertà- dei manager delle grandi società, ma ha rafforzato la libertà degli operai, per esempio in settori quali le acciaierie e l’industria automobilistica, rendendo gli Stati Uniti una società leggermente più egualitaria (forse più che leggermente).

Nella sfera economica uno Stato improntato al laissez-faire produrrà certamente una società gerarchica (anche se la gerarchia potrebbe essere un po’ traballante, dato che le dinastie sono in costante ascesa e declino). Eppure, non c’è incompatibilità tra libertà economica ed uguaglianza finché nessuna delle due viene presa in termini assoluti. Un’economia regolamentata può produrre non già una società di eguali, ma una società più egualitaria. Non penso, però, che valga un’affermazione simmetrica riguardo la sfera della politica. I limiti alla libertà politica non sono, o almeno non sono mai a lungo, compatibili con alcun tipo di uguaglianza. (Così forse l’attività politica è più simile al pensare e all’amare che non allo scambio economico…).

La famiglia imperiale russa in una foto del 1917. In primo piano la principessa Olga, lo zar Nicola II, la principessa Anastasia, zarevitc Alexeï e la principessa Tatiana. In secondo piano la principessa Maria e la zarina Alexandra Fedorovna. / AFP PHOTO / LEHTIKUVA / -

Si possono sviluppare ragionamenti plausibili per limitare la libertà politica allo scopo di preservarla, come quando gli Stati democratici mettono fuorilegge alcuni partiti politici che vogliono instaurare una dittatura, o mettono al bando i discorsi di incitamento all’odio che negano i diritti politici (nonché tutti gli altri) alle minoranze. Non mi soffermerò su questi argomenti. Voglio solo insistere sul fatto che, a differenza della libertà economica, la libertà politica non può essere oggetto di compromessi nel nome dell’uguaglianza. Data la lunga storia di campagne politiche contro i feudatari, la monarchia assoluta, e la plutocrazia capitalista, potremmo dire che la libertà politica è l’arma della sinistra; ma poiché queste campagne sono talvolta state sconfitte, e spesso non si sono concluse positivamente, a sinistra c’è sempre la tentazione di cercare altre vie. Ma l’altra strada, la dittatura rivoluzionaria, finisce per essere grottescamente familiare: come ha scritto Yeats, «la frusta prosegue il suo corso».

Una versione limitata della libertà economica è compatibile con l’uguaglianza, ma una libertà politica che ci permette di lottare per le necessarie limitazioni non può, essa stessa, essere limitata. Il diritto all’opposizione mette tutti i regimi politici, compresi quelli di sinistra, a rischio. La mia tesi, oggi, è molto semplice: questo è un rischio che va sempre corso. La pretesa di qualunque regime di sinistra che ogni opposizione sia controrivoluzionaria e vada repressa è un rifiuto di questo rischio. Dobbiamo riconoscere che si tratta di un rifiuto volto alla dominazione e non all’uguaglianza.

(Traduzione di Stefano Ignone)

© Riproduzione riservata