È in programma dal 4 all’8 ottobre, a Palermo, la terza edizione del «Festival delle Letterature migranti». L’obiettivo del Festival, promosso dal Comune di Palermo insieme all’Università e a tante istituzioni pubbliche e private, è di contribuire alla pace e alla convivenza tra i popoli, facendoli incontrare e conoscere, tra l’altro, attraverso le loro produzioni letterarie. In programma centinaia di ospiti, incontri e spettacoli in decine di luoghi della città. Una sezione del Festival è dedicata a Palermo. Nel testo che pubblichiamo qui di seguito, il regista palermitano Roberto Andò parla del rapporto che lo scrittore Leonardo Sciascia aveva con la città siciliana. (www.festivaletteraturemigranti.it)
Quando ho conosciuto Leonardo Sciascia ero poco più che ventenne e cercavo, nella Palermo lugubre di allora, qualcuno che mi aiutasse a decifrare me stesso e il luogo in cui abitavo. Anche se non lo sapevo, cercavo un maestro. Sciascia è stato lo scrittore che da ragazzo mi ha investito del piacere della scrittura, offrendomi la sua voce inconfondibile, in grado di frugare nel caos siciliano e italiano, attraverso i misteri e gli squarci di un ragionamento lucido, acuminato. La sua letteratura, costitutivamente legata al pensiero, alla riflessione, sia che parlasse di mafia, o di un aspetto del potere legato alla giustizia, o, ancora, del potere interrogato nella sua natura più intrinseca e astratta, mi aveva subito stregato.
Ma se non fosse stato per la grande generosità di Elvira Sellerio, non lo avrei mai incontrato. Le probabilità che un giovane palermitano potesse intercettare un grande scrittore come Sciascia, nella Palermo di allora erano nulle. Non esistevano festival di letteratura, e non c'era ancora la voga dei tour promozionali per i libri in uscita. In più, egli aveva un suo modo felpato e sghembo di abitare Palermo, vi dimorava in punta di piedi. Per proteggersi dalla sua violenza e dall’infida imprevedibilità degli incontri umani, si era infatti creato dei rituali, delle abitudini. Questi rituali tracciavano una sorta di mappa di Palermo, e inevitabilmente ne ritagliavano una geografia speciale. Leonardo sembrava applicare al suo modo di abitare la città la lezione dell’amico Calvino, dedicandovi «attenzione e apprendimento continui», riconoscendo «chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno», dandosi da fare perché durasse, e avesse spazio. Beninteso, in questo suo atteggiamento, non c'era nulla di prudente, o di ortodosso. Seppure la temesse, e in qualche modo la disprezzasse, Sciascia amava Palermo. La amava sensualmente, anche nella sua pericolosa indecifrabilità. Da scrittore, ne detestava l’inconcludenza, in questo aveva ben assorbito la lezione del suo maestro, Vitaliano Brancati.
Tra le tante letture fondamentali che mi ha suggerito, devo a Leonardo anche la scoperta del Brancati saggista, soprattuto degli scritti raccolti da De Feo e Cibotto nel volume Il borghese e l’immensità. In uno di questi, intitolato Il Castello, Brancati teorizza l’inconcludenza di Palermo e la sua refrattarietà a creare scrittori. «Non credo che la letteratura abbia molti artisti palermitani. I pochi che passano per tali sono nati dall’equivoco in cui cadono sovente i deboli filosofi di credersi forti poeti”. Affermazione lapidaria, ma sottile e insinuante. Non a caso, per Brancati, l’autentica vocazione di Palermo è l’intellettualità, intesa nel suo carattere più vago e astratto. «Da questa porta – scrive ancora lo scrittore di Pachino – sono entrati in Sicilia gli arabi, i cavilli, le sottigliezze, l’io e il non io, la malinconia e i musaici».
Personalmente, ritengo che Brancati sbagliasse, e che in questo caso, per amor di boutade, avesse appiattito la letteratura su una idea alquanto convenzionale. Lo dimostra la scrittura che poi è nata a Palermo, da Lucio Piccolo, Tomasi di Lampedusa, ai romanzieri che in anni più recenti vi hanno creato una sorta di scuola con opere che pongono la riflessione come peculiarità vincente di questa tradizione, ribadendo ancora una volta che essa non costituisce un inciampo alla creatività del romanzo. Come non lo era per Musil, non lo è per Fiore, Perriera, Vasta, tanto per fare dei nomi.
Ma è vero, come scriverà Sciascia, che della «Palermo prima del ’14 non esiste racconto», essa «è scomparsa senza lasciare immagine di sé in un libro che si possa paragonare a quello di Savinio». Leonardo si riferiva ad Ascolta il tuo cuore, città, appassionata dedica alla Milano capitale civile, e alla sua capacità di cambiare volto mantenendo integro il proprio cuore. Sul fatto che Palermo avesse ancora un cuore, Sciascia nutriva però dei dubbi. Per precisare la natura di questi dubbi, occorre tornare al reticolo di luoghi che puntella l’idea che egli ha disseminato negli scritti in cui si occupa di Palermo, saggi in cui egli l’ha ripensata come fosse una città fisicamente compromessa, della quale era possibile farsi un'idea solo a partire dal frammento documentale, dalla scrittura, dalla pittura o ancora, tramite la fotografia, il mezzo più coinvolto nella memoria.
Infatti, ripensare Palermo significa per Sciascia, innanzitutto, restituirle una visione, emendandola degli oltraggi che ne offuscano la vista. Per lo scrittore, quel che sappiamo di Palermo è più forte di quel che vediamo.
Per il grande scrittore di Racalmuto, la capitale siciliana è indifferente o arrogante, mai cosciente. Se la Milano descritta da Luca Doninelli è una capitale costretta a registrare il crollo delle proprie aspettative, la Palermo di Sciascia è una capitale che neppure nei suoi fasti ha mai preteso aspettative, anzi, che sin dall’origine ne ha introiettato il crollo.
Eppure Sciascia, a un certo punto della sua vita, abbandonerà Racalmuto, e la sceglierà come sua città. Nel trasferirsi a Palermo, lo scrittore inizierà a riscriverne la mappa. Per abitarvi sceglierà Villa Sperlinga, un luogo che non sembra Palermo, un’isola residenziale in una città che non ha mai avuto quartieri borghesi. Vincenzo Consolo – ma lo stesso Sciascia me lo ha poi confermato - mi ha rivelato che, quando cercava casa a Palermo, Leonardo si era invaghito del villino Favaloro, la palazzina liberty di via Dante, ma che poi, intimidito dalla sua imponenza, aveva preferito lasciar perdere.
In effetti, ho sempre pensato che Sciascia vagheggiasse di recludersi nel recinto «della piccola capitale dell’art Nouveau», ossimoro con cui aveva descritto la Palermo a lui più congeniale. Da me interrogato sul perché della scelta di Villa Sperlinga, rispose: «Mi fa pensare di essere altrove, di non essere a Palermo».
A questo proposito, vorrei evocare un ricordo personale. Di solito, ero io a chiamare Leonardo, in tarda mattina, verso mezzogiorno, quando ero certo di non disturbarne la scrittura. Ma a volte mi chiamava lui, per comunicarmi qualcosa, o per propormi un programma particolare (anche se quasi tutti i pomeriggi, aveva l’abitudine di fare una puntata da Arte al Borgo di Maurilio Catalano). Ricordo che un pomeriggio mi chiese di accompagnarlo al castello Utveggio. Mi disse che con noi sarebbe venuto anche Castelli, delizioso scrittore di libri come Gli ombelichi tenui, e Entromondo. Dunque, alle quattro, passai a prenderlo da casa sua a Viale Scaduto, e insieme raggiungemmo Antonio. Ci aspettava davanti a un rivenditore di tabacchi in via Pirandello, lo stesso in cui Leonardo aveva la consuetudine di comprare le sigarette.
Da lì, con la mia 127, ci avviammo verso Monte Pellegrino. Sciascia, era come sempre silenzioso, ma sembrava di ottimo umore. Mi aveva fatto la sorpresa di un dono, un libro per lui fondamentale, a cui aveva già avuto modo di introdurmi, Le dame galanti di Pierre Bordeille de Brantome, tradotto da Alberto Savinio. Lungo la strada, lui e Castelli ne rievocarono divertiti alcuni passi, un impasto brillante di erotismo e arguta elucubrazione. Giunti in cima al monte, con nostra sorpresa, trovammo aperto il cancello d’ingresso al castello. Una volta entrati, dopo aver parcheggiato, ci avviammo a piedi verso il castello e, visto che nessuno ci aveva fermato, Sciascia ci chiese di dirigerci verso il torrione che si protende sulla piana di Palermo.
C’era vento, e le raffiche improvvise rendevano ancora più fragile e precaria l'andatura di Leonardo appoggiato a quel bastone cui negli ultimi anni si era dovuto piegare. Ci sporgemmo a puntare la vertigine offerta dal panorama e Sciascia, atteggiando il volto al sorriso, mi disse che per capire Palermo bisognava guardarla da lì. Mi spiegò che quel castello era considerato da Brancati l’emblema del fallimento di Palermo. Era un edificio che riassumeva, in modo icastico, la velleità di una classe impreditoriale destinata allo scacco. Il simbolo di una città invertebrata, senza altra voce che non fosse quella della sua piccola borghesia, una classe scaltra e moralmente disponibile, nutrita dagli stipendi della Regione, la stessa che nel tempo l’avrebbe sfigurata.
Come si può capire, Leonardo amava profondamente Palermo, e l’aveva battuta palmo a palmo, frequentando i suoi tassisti, da non guidatore, in un’epoca in cui nessuno si azzardava a prendere un taxi. Soprattutto amava consultarla attraverso le fotografie, ripercorrendone le strade, le statue, i giardini, le inferriate, perlustrandola cioè con l’immaginazione, l’unica via percorribile per abolirne il degrado. Seguendo lo scatto del fotografo, Sciascia ritrovava la città che i palermitani avevano lasciato all’incuria.
Proprio perché la amava, prescrivendo a me quello quello che a lui aveva intimato di fare Elio Vittorini, a un certo punto mi ingiunse di lasciare Palermo. «Qui non si può combinare nulla, devi andartene…», mi avvertì. Suggerimento che io non tralasciai e del quale gli sono infinitamente grato. Ma Leonardo era un uomo geniale e contraddittorio. Anzi, come è noto, amava contraddirsi. Così, nel tempo, si sarebbe adoperato per far sì che ci fossero meno ragioni perché un giovane lasciasse Palermo. Perché la vita non fosse altrove.
Se dovessi aggiungere a posteriori un altro luogo ai due punti di vista da lui indicati per vedere meglio la nostra amata città, ne segnalerei uno di natura esclusivamente morale, dunque non geografico, un luogo che non esiste più. Parlo di quel recinto magico che corrisponde alle stanze chiuse del giornale L’Ora, luogo intimo ma focalizzato sul fuori, spazio privato e insieme rischiosamente pubblico, un interno da cui Palermo non si vede, ma dal quale, paradossalmente, essa risulta più “leggibile”.
Come sempre in Sciascia, la leggibilità non corrisponde alla visibilità. Per Sciascia solo il pensiero, o la sua forma più limpida e assoluta, la scrittura, possono stabilire un rapporto veritiero tra le immagini e le cose, tra le parole e le cose, tra il delitto e il movente. In quelle stanze del giornale, nell’edificio oggi occupato dall'Agenzia delle entrate (curioso gioco del destino, quelle entrate un tempo erano gestite dalla società dei fratelli Salvo) Sciascia ha trascorso giorni e notti (moltissime le notti durante il caso De Mauro), vivendole come un rifugio, o come una fortezza, da cui era però possibile creare un rappporto con cittadini che avrebbero condiviso le sue istanze civili, la sua stessa idea di democrazia.
Fallita l'impresa dell’Ora, le uniche stanze da cui Sciascia continuò a emettere messaggi per i cittadini, compiendo le buone azioni che di solito dissimulava nei romanzi, saranno quelle della casa editrice Sellerio, in via Siracusa. Lì, come ai tempi di Vittorio Nisticò, condividendo il disegno di Elvira, Sciascia si impegnerà a progettare un’arca per Palermo, a inventare un altro modo di togliere spazio all’inferno: pubblicare libri. La sua collana la intitolerà La memoria.
Se oggi Palermo ha un futuro è anche per quel gesto concreto e operoso tramite il quale Leonardo e Elvira hanno rovesciato il luogo comune che prescrive ci sia sempre un centro produttore e una periferia consumatrice. Dedicandosi a fare un giornale, collaborando a inventare una casa editrice, Leonardo pose le condizioni per delegittimare l’immagine a lui cara di Palermo città-deserto. Per una volta, contestando se stesso, volle creare delle aspettative. Se Palermo si è reinventata davanti al Leviatano della Storia lo deve anche a lui. E se la toponomastica avesse un’anima, a Palermo dovrebbe esserci una via Leonardo Sciascia.
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