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I romani e la dea del male oscuro

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I romani e la dea del male oscuro

All'inizio della Sezione XXX dei “Problemi”, ove tratta di ragione, mente e sapienza, Aristotele si pone una domanda: “Perché gli uomini che si sono distinti nella filosofia, nella politica, nella poesia, nelle diverse arti sono tutti dei melancolici, e alcuni fino al punto di ammalarsi delle malattie dovute alla bile nera?”.
E' il testo del pensatore greco nella traduzione di Maria Fernanda Ferrini (Bompiani): nel leggerlo ci si accorge che la malinconia, poi nota come male oscuro e depressione, era ben conosciuta dagli antichi. Il mondo greco, a cominciare dagli scritti della cerchia del medico Ippocrate, considerava tale malessere una patologia fisica collegata appunto alla bile nera. Il termine, infatti, nasce da quest'ultima: “melancholía” è composta da “mélas”, (il genitivo suona “mélanos”, nero), e “cholé” (bile).

Anche il mondo latino elaborò riflessioni su codesta singolare compagna delle anime, ma i romani fecero un passo in avanti: si direbbe che la “melancholia” conosciuta nell'Urbe non fosse più riferita alla sola sfera del corpo, ma anche a quella della mente e dei suoi eventuali fantasmi.
Un libro di Donatella Puliga, intitolato “La depressione è una dea. I romani e il male oscuro” (il Mulino, pp. 238, euro 20), ne ricostruisce storie e testimoni. Dalle depressioni di Cicerone al “taedium vitae” di Seneca, da Lucrezio a Ovidio con le sue malinconie recate dall'esilio, senza dimenticare gli affanni di Orazio e la dea Murcia (che avrebbe avuto il potere di infiacchire e deprimere), l'autrice ricostruisce la fascinosa odissea di un disagio senza tempo. Del resto, per lo stesso Seneca – osserva Puliga – “il male oscuro trova la sua origine nell'io”.
Sulla dea Murcia, invece, si potrebbe aprire un dibattito infinito. Ne parlano, tra gli altri, Livio e Varrone, ricordando il piccolo santuario circondato da un boschetto, poi ridotto a un solo albero di mirto; rammenta tale luogo il padre della Chiesa Tertulliano, anche se identifica questa divinità con Venere (era citata come Venere Murcia: da qui forse l'equivoco).

Altri collegano la figura all'aggettivo “murcidus”, che si può rendere con pigro, svogliato, accidioso; quindi inerente alla depressione. Non è mancato tra i linguisti chi ha osservato che la matrice “mu” porta verso madre e morte, forse al contrasto che si perde nelle sue origini italiche e che si poteva accostare all'amore, alla tristezza e alla fine. Puliga dedica alla storia di Murcia il terzo capitolo del libro partendo da Sant'Agostino e, tra l'altro, riprendendo la spiegazione etimologica che ci diede Servio, il grande commentatore dell'”Eneide”.
Si può finire anche in una parentesi gastronomica. Ma questa è ulteriore storia. Di certo se a Roma si onorava una dea che in un modo o in un altro spiegava la depressione, bisogna ammettere che sul male oscuro gli antichi la sapevano lunga. Senza l'aiuto di Freud.

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