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Gli emarginati della mia Norvegia

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a colloquio con dag solstad

Gli emarginati della mia Norvegia

Appena entro nella sua casa piena di libri e di tele appese alle pareti, un appartamento dalle ampie stanze nel quartiere borghese e silenzioso di Frogner, a ridosso del centro di Oslo, Dag Solstad mi invita a non togliermi le scarpe, come è d’abitudine nelle visite norvegesi. «Non ho mai potuto soffrire certe formalità», ammette con un sorriso. Da oltre un ventennio, Solstad incarna il duplice ruolo di autore riconosciuto e “istituzionalizzato” nel canone norvegese, l’unico ad aver ricevuto per tre volte il Premio della Critica, e di contestatore del senso comune, in nome della militanza politica radicale degli anni Settanta. In Italia sono stati tradotti da Massimo Ciaravolo e Maria Valeria D’Avino presso Iperborea solo quattro dei suoi molti romanzi: Tentativo di descrivere l’impenetrabile, Timidezza e dignità, La notte del professor Andersen e – quest’anno – Romanzo 11, libro 18. Il primo è stato scritto negli anni Ottanta, gli altri tre nel decennio successivo, in un’epoca che lo stesso Solstad definisce molto diversa dall’attuale.

In quei libri – tra i suoi più belli – sono rintracciabili due livelli. Il primo ha a che fare con la crisi dell’utopia successiva al fallimento della nuova sinistra: nelle loro pagine soffia una disillusione da Grande Freddo, che si dipana in mille sconfitte private e spesso silenziose. L’altro livello è più profondo: riguarda, ben al di là della crisi della militanza politica, la caducità della relazioni umane e affettive, l’alienazione e l’incomunicabilità tra le persone, i silenzi e le fragilità che fanno evaporare o sfiorire ogni esistenza.

«Oggi», dice Solstad, «sono molto dubbioso che sia possibile immaginare un futuro diverso, un orizzonte sociale diverso da quello in cui viviamo. Con Roman 1987 (non tradotto in italiano, ndr) avevo descritto la fascinazione della rivoluzione e il suo insuccesso. Dopo questo romanzo ho deciso di non scrivere più libri con personaggi che avevano un passato nel partito comunista. Sarebbe stata una ripetizione. Ho narrato altri personaggi, alle prese con vite decisamente più integrate, con meno frustrazioni. Tuttavia continuo a credere che senza speranza non è possibile scrivere. La cosa peggiore che possa capitarci è operare una censura delle cose che non si possono scrivere. Non voglio essere io stesso l’artefice di questa censura, non voglio io stesso operare una tale amputazione rispetto a tutto ciò che riguarda il futuro. Non posso farlo a nome del futuro».

Alcuni quotidiani norvegesi riportano in prima pagina la notizia secondo cui Amnesty International ha condannato il governo per aver rimpatriato molti rifugiati in Afghanistan e in Somalia. La crisi dei rifugiati ha avuto per reazione la crescita di partiti xenofobi o identitari in molti Paesi europei. In Norvegia, il Partito del Progresso è entrato nel governo.

«Nelle elezioni del 2013 si è realizzato qualcosa che molti di noi credevano impossibile. Il Partito del Progresso, il più a destra, quello a cui era vicino Breivik, ha ottenuto alcuni ministeri. Questo è stato criticato da alcuni giornali. Ma la Norvegia ufficiale si è meravigliata di queste critiche. E a sua volta ha criticato i giornali che avevano criticato il Partito del Progresso definendolo fascista. Chi lo fa può avere problemi con il governo, e io stesso so bene che una tale dichiarazione susciterebbe scandalo. Per questo non lo dico. Quando mi chiedono che tipo di governo c’è oggi in Norvegia, dico che si tratta di un governo blu-blu, invece di dire blu-bruno...»

Per Solstad è singolare che non si parli quasi più del fatto che Breivik abbia ucciso 77 persone a Utoya, dell’humus culturale che ha prodotto uno dei più gravi atti terroristici avvenuti in Europa negli ultimi anni, mentre al contrario il Partito del Progresso lamenta «l’islamizzazione occulta» della società. Insiste sulla lingua della nuova destra: «Molte loro affermazioni sono del tutto simili a quelle che abitualmente definiamo fasciste. Tuttavia “fascismo” è una parola da usare con attenzione. Se diciamo che il Partito del Progresso è veramente fascista allora dovremmo dire lo stesso dei partiti che si stanno affermando in mezza Europa. Per questo credo che dobbiamo maneggiare con cura le parole, non usarle incautamente. Ma allo stesso tempo non possiamo non chiederci come definire quello che sta accadendo in Ungheria, in Polonia o nella stessa Norvegia».

In Tentativo di descrivere l’impenetrabile, Solstad raccontava di un architetto socialdemocratico che aveva deciso di andare a vivere nel quartiere satellite di Oslo da lui progettato, un quartiere modello che avrebbe dovuto dare agli operai una vita comunitaria dagli alti standard e che invece si era poi rivelato un luogo di solitudine e alienazione. Solstad descriveva tutta la difficoltà per un intellettuale di avere un incontro reale con la classe operaia, di superare gli steccati che si riteneva di poter oltrepassare facilmente. Così gli chiedo se oggi sia più difficile cercare un incontro reale con i nuovi arrivati, o i nuovi ultimi: i rifugiati.

«C’è una grande differenza, anche se ci sono ovviamente delle cose simili. In realtà c’è una grande differenza nelle stesse persone che definiamo rifugiati. Possono esserci analfabeti che provengono dalle montagne della Turchia e intellettuali o giornalisti che fuggono da regimi oppressivi. L’integrazione non è mai facile. Quando accadono fatti come le molestie di Colonia è facile farsi prendere dalla rabbia e pensare: ma perché si comportano così? Perché non c’è nel gruppo qualcuno capace di condannare questi comportamenti? Punti come questi rendono l’integrazione e la discussione molto difficili alle volte. Ma personalmente non penso che sia più difficile parlare con un rifugiato che con un altro norvegese».

Il suo ultimo romanzo in Norvegia è uscito quattro anni fa. Ammette di aver scritto solo pochi articoli ultimamente, e che gli acciacchi fisici gli hanno impedito di affrontare lavori più lunghi. Ma la verità – aggiunge subito – è che non sente più di avere davvero qualcosa da dire. Dipende dall’epoca in cui viviamo: «La cultura vive ormai delle promesse del capitalismo: ad esempio, se fai un libro, non conta che sia buono o cattivo, l’unica questione che davvero conta è se venda o meno. Negli anni Novanta le utopie politiche erano già finite, i miei personaggi agivano in un’epoca di riflusso, ma non si era ancora realizzata una situazione come quella attuale».

Ed è questo, gli chiedo, che lo spinge al silenzio? «Ho completamente perso la mia voce. Prima potevo ancora rintanarmi in uno spazio differente, quello della scrittura. Ma oggi mi sento privato della mia stessa lingua. La lingua dei social network non è più la mia».

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