Abbiamo bisogno del silenzio, di un momento di pace che ci protegga dal rumore che ci avvolge. Non è soltanto un rifugio, ma anche una necessità. Ben lo sanno i musicisti, che con questa dimensione senza note devono fare i conti ogni secondo. Lo conoscono i religiosi, i filosofi, i saggi, i politici veri, sovente i grandi viaggiatori. Forse troppi altri.
“The rest is silence”, “Il resto è silenzio”: Shakespeare lo fa dire ad Amleto nella scena II del V atto dell'omonima tragedia. Non vi sembra una risposta anticipata di qualche secolo alle questioni poste dalla celebre canzone “Il Suono Del Silenzio”, “The Sound of Silence”, di Simon e Garfunkel? Per l'antico filosofo Plotino (lo scrive nella V “Enneade”) il silenzio scorta necessariamente l'ascesi.
Certo, c'è il silenzio di Dio, oltre quello degli uomini, di cui ha parlato André Neher ne “L'esilio della parola”; possiamo definirlo la mancanza di un suo intervento dinanzi alle atrocità della storia. Dostoevskij domandò a Dio disperatamente la ragione della morte dei bambini e scrisse di non aver ricevuto risposta. Anche Paolo VI, un papa grandissimo, durante i giorni del caso Moro implorò Dio ed è noto che alle sue suppliche seguì il silenzio.
C'è il silenzio degli oggetti che fanno parte del nostro mondo e a esso partecipano senza suoni o sillabe. Un filosofo come Wittgenstein nel celebre “Tractatus logico-philosophicus” ha lasciato un'affermazione da meditare: “Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. E' un invito al silenzio per intere categorie del sapere. Le quali, invece, hanno un disperato bisogno di comunicare per dimostrare di essere presenti e di meritare qualcosa.
Un libro intitolato “Elogio del silenzio” (edito da Il Saggiatore, pp. 184, euro 11) del drammaturgo e scrittore John Biguenet (insegna alla Loyola University di New Orleans) invita a meditare su tale atteggiamento che il più delle volte rimane “al di là della nostra portata”. Può essere che il silenzio richieda una certa forza, non sempre è sinonimo di resa.
Biguenet prende il lettore per mano e gli presenta gli innumerevoli aspetti del silenzio. Nelle sue assenze si possono riordinare i pensieri della giornata, trovare pace, ma è anche sinonimo di solitudine, inquietudine per l'ignoto, angoscia dell'attesa. Il silenzio è colpevole quando copre nefandezze e sopraffazioni.
Può essere un bene di lusso o trasformarsi in disturbo, a volte esprime meglio delle parole le nostre passioni. Utopico incanto o spettro, segno di forza o di resa, il silenzio va vissuto esercitandosi, come ben sanno i trappisti che non parlano. Anche se non bisogna dimenticare la regola medievale “Chi tace acconsente”. Non è sempre valida. Oggi va tradotta: “Chi tace dice niente”.
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