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In Islanda sulle tracce di Bobby Fischer

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il decimo anniversario della morte dello scacchista

In Islanda sulle tracce di Bobby Fischer

Bobby Fischer  (Ap)
Bobby Fischer (Ap)

Da fuori sembra una semplice casa di legno bianca con il tetto rosso, come ce ne sono centinaia nel resto dell’Islanda. Se ci passate in auto nemmeno vi accorgete che in realtà non è una casa, ma un piccolo museo. È il luogo in cui sono esposti documenti, foto e altri oggetti appartenuti a Bobby Fischer, il più grande scacchista che sia mai esistito secondo alcuni, il più insopportabile giocatore secondo altri, «una persona difficile» secondo una sua stessa ammissione. Il Bobby Fischer Center è visitabile solo da maggio a settembre e non fa eccezione nemmeno per l’anniversario della sua morte, avvenuta il 17 gennaio 2008.

Chi passasse da queste parti nel mese più freddo dell’anno può, però, spingersi un paio di chilometri più a est, fino al cimitero di Laugardælir: una quindicina di tombe in tutto, compresa quella dell’uomo che nel 1972 disse «no» alla richiesta di Henry Kissinger di sedersi davanti alla scacchiera e battere patriotticamente il russo Boris Spassky (salvo poi farsi convincere dai 250mila dollari messi in palio da uno sponsor).

Una delle (poche) qualità umane riconosciute a Fischer era la sincerità: «I am only interested in money, women and the Jewish conspiracy», aveva detto al suo amico Helgi Olafsson in un ristorante di Reykjavik. Quella sera del 2005 Olafsson non poteva immaginare che la loro amicizia sarebbe stata interrotta due anni più tardi con un messaggio sul telefonino che recitava: «Please pay me 10.000 Usd sincere money so as to prove which side you are on». Il motivo del litigio era un documentario a cui Bobby Fischer aveva preso parte, pentendosene a riprese finite. Ricordando quell’episodio Olafsson racconta che «la mia reazione fu troppo dura e me ne pento», ma in quello scambio notturno di messaggi Fischer aveva offeso il popolo islandese e Olafsson non potè fare a meno di ricordargli che «erano stati proprio gli islandesi a salvargli il culo» quando era detenuto in Giappone per violazione delle leggi sull’immmigrazione.

Bobby Fischer era così: antipatico, antisemita, maschilista, complottista. Per vent’anni si era isolato, sparendo all’apice della sua carriera. Era tornato a sedersi davanti ai «pezzi» bianchi e neri nel 1992 per giocare nuovamente contro Spassky in un incontro organizzato a Budua. Atterrando in Jugoslavia, però, il campione aveva violato il divieto di «esportazione di servizi» imposto ai cittadini americani nei confronti della Serbia e del Montenegro. «Consideriamo la sua presenza in Jugoslavia come una esportazione di servizi nel senso che lo sponsor jugoslavo beneficia dell’utilizzo del suo nome e reputazione», gli aveva intimato Richard Newcomb, direttore dell’ufficio per il controllo degli affari esteri. Fischer quella partita la giocò e la vinse. Non tornò mai più negli Stati Uniti, e proprio quando il Giappone - dov’era in carcere per un passaporto falso - accettò di estradarlo in America, l’Islanda gli regalò la cittadinanza e una nuova libertà. Nell’isola delle saghe Fischer ha vissuto la fine della sua, passeggiando per le strade di Rejkiavik con le sue immancabili Birkenstock ai piedi. Chi non lo conosceva lo scambiava per un clochard. Chi lo conosceva provava pena e affetto per quell’uomo geniale, incapace di governare i suoi demoni ma bravissimo a governare cavalli, torri, alfieri e re.

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