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Alla ricerca del capitale sociale

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carlo cottarelli

Alla ricerca del capitale sociale

Al museo del Prado. «I sette peccati capitali», dipinto di Hieronymus Bosch (1450 -1516), databile  tra il 1505 e il 1510
Al museo del Prado. «I sette peccati capitali», dipinto di Hieronymus Bosch (1450 -1516), databile tra il 1505 e il 1510

C’è un capitale che fa ricco un Paese ma non compare nelle classifiche di «Forbes». È il capitale sociale e l’Italia ne è parecchio priva. E quella lacuna diventa l’origine mefistofelica dei sette peccati capitali della sua economia, principali responsabili di una crescita sempre monca, di un riscatto mai compiuto. Di un’Italia insomma in perenne deficit di credibilità anche quando sembra che tutto vada per il meglio. È la tesi de I sette peccati capitali dell’economia italiana, l’ultimo libro di Carlo Cottarelli, Mr Spending review del governo Letta e, per qualche mese, anche del governo Renzi.

L’ex grand commis del Fondo monetario si dedica, in forma piana e divulgativa senza dimenticare un robusto corredo statistico, all’analisi delle cause profonde dell’arretramento italiano: l’eccesso di burocrazia, l’evasione fiscale endemica, la corruzione, il debito pubblico monstre, la cattiva amministrazione della giustizia, il divario crescente tra Nord e Sud, il calo demografico inarrestabile e, fenomeno più recente, la difficile convivenza con l’euro. Quanto all’euro, l’idea della doppia valuta, quando non addirittura l’uscita dalla moneta unica, vengono bocciate senza appello. Fatti i conti, anche senza derive ideologiche, «non ne vale la pena». L’euro, in ogni caso, ci ha salvati e non è una condanna. Bisogna imparare a sentirsi parte comune di un progetto ambizioso e ancora in divenire e accompagnarlo con le riforme economiche che l’Italia non ha ancora fatto. E la politica dei rinvii è un’altra delle tante madri di quei sette peccati capitali. Che, tra l’altro, sono collegati tra loro e se ciò può essere un problema, diventa un vantaggio quando si decide di affrontare le soluzioni: risolto un problema, si cominciano a risolvere anche gli altri.

È evidente che se un Paese moltiplica i livelli della burocrazia moltiplica anche le occasioni per esercitare la corruzione, fenomeno incoraggiato, tra l’altro, se la risposta della giustizia tende a non arrivare mai o a risultare sfuocata perché inefficiente. Fenomeno endemico, la corruzione, ma non fino a renderlo una vera quantità economica censibile. Cottarelli contesta con dovizia di argomenti le stime che circolano sui presunti 60 miliardi di costo della corruzione nazionale a volte avallate anche in autorevoli sedi istituzionali come la Corte dei conti. Quanto alla burocrazia, gustoso il passaggio sull’amarcord del primo rapporto con le alte dirigenze dei ministeri, alcune delle quali palesemente ostili («si erano montati la testa»).

Il debito pubblico è stato il bancomat del consenso pagato dalle generazioni future ad uso delle mediazioni contingenti (per alcuni decenni) dell’Italia iper-proporzionale e il nuovo corso imposto dalla legge elettorale non fa sperare niente di buono. È e resta il problema numero uno. L’evasione fiscale, invece, è stato il premio di un consenso cinico ed effimero, diventato ormai cultura diffusa, ammantata di presentabilità. Ed è forse il problema numero due.

È soprattutto in questa doppia anomalia la lacuna profonda dell’Italia senza capitale sociale: è un Paese contradaiolo, accartocciato sul proprio egoismo di territorio, di ceto, di casta cui sfugge il senso del bene comune, il vantaggio di lunga lena di essere e sentirsi comunità. Un’Italia ancora così poco Stato, ancora così poco nazione; «un Paese di individualisti dove regna la mancanza di fiducia nel comportamento civile del prossimo».

Una paziente strategia dell’educazione delle nuove generazioni forse potrà porre rimedio alla controcultura della furbizia e della scorciatoia, sedimentata, decennio dopo decennio, in un’Italia sempre ferma agli amari aforismi di Flaiano.

L’analisi da economista - e l’esigenza divulgativa del volume - forse semplifica le correnti profonde che hanno fatto diventare l’Italia un Paese per vecchi, ma una domanda scuote le coscienze di almeno tre generazioni: «Chiedetevi - scrive Cottarelli - perché non avete fatto figli quando eravate giovani e non protestate contro la legge Fornero».

Anche la narrazione del divario tra il Nord e il Sud è semplificata per fini pedagogici fino a sottolineare come si sia ampliato proprio il gap di capitale sociale. Un allarme che arriva a ridosso di una tornata elettorale dove il Mezzogiorno sarà più decisivo che mai. Quella polarizzazione territoriale ha creato un solco via via allargato dalla crisi globale. Ma una vera e pervicace anestesia analitica ha portato a rimuovere lo scandalo delle due Italie fino a renderle un dato di fatto, tanto drammaticamente banale quanto ineludibile.

Non è un libro disfattista: molto è stato fatto, dice Cottarelli, molto è in itinere, ma molto deve essere ancora affrontato. Anche perché comunque un nuovo shock presto o tardi arriverà e, già con l’aumento dei tassi, l’Italia pagherà il prezzo dell’inevitabile rincaro degli oneri per il servizio al debito pubblico, uno scenario che la politica tende a eludere con la solita malizia di corto respiro. Cottarelli punta tutto sulla svolta educativa e sulla creazione di positivi fattori di contesto, peraltro assai più richiesti, ad esempio, da chi investe rispetto a politiche di pura incentivazione. La concorrenza, soprattutto, rimane il principale fattore di contesto in grado di aumentare la competitività del Paese. Ci sono ancora molti settori dove abbattere le rendite di posizione o i monopoli innaturali creati spesso dal sottogoverno. Concorrenza va di pari passo con deregulation e il motto che Cottarelli fa suo è: legiferare quando serve, delegificare quando si può.

Un lavoro da maratoneti della politica economica, da pazienti certosini del riformismo. Con un’avvertenza: evitare quelle che per l’autore sono tre pie illusioni; una crescita trainata dalla spesa pubblica e dal settore pubblico; una spesa privata sostenuta dal credito bancario; una crescita sostenuta da investimenti europei. Si può non essere d’accordo su questo e su ciascuno di questi capitoli si potrebbe evidenziare qualche “sfumatura di grigio” in più, anche perchè guadagna posizioni l’idea degli eurobond e del potenziamento del piano Junker per gli investimenti. Ma resta l’idea di fondo della rotta da seguire.

Rotta difficile che vale, pagina dopo pagina, un programma di governo. Non a caso Cottarelli è stato più volte corteggiato dai partiti in questa corsa al voto. Per ora si è sfilato e ha preso tempo: vuole vedere i programmi e la convergenza con le sue idee. A leggere, però, quanto hanno presentato i partiti in questa sgangherata campagna elettorale, nessuno passerebbe il test di questo libro. I peccatori sono ancora troppi.

Carlo Cottarelli, I sette peccati capitali dell’economia italiana, Feltrinelli, Milano, pagg. 174, € 15

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