C’è stato un tempo in cui il music business era soprattutto artigianato: la chitarra di Elvis Presley davanti a un microfono della Sun Records e poco altro. Poi è diventato arte, qualcosa capace di tentare nuovi linguaggi (Beatles), addirittura poesia (Bob Dylan). A partire dagli anni Settanta il music business è stato industria, con il sistema delle major in crescita esponenziale tra partnership e acquisizioni, sempre più soldi in giro, discografici più potenti, artisti più ricchi. Quel modello entra in crisi alla fine degli anni Novanta, con la «prima rivoluzione digitale» della musica, con Napster, il file sharing degli mp3, la condivisione (illegale) sul web delle canzoni, quanto bastava per far cadere il castello di carte che la discografia aveva faticosamente costruito nei precedenti 50 anni. Altro che crisi: fu una specie d’apocalisse.
La quotazione di Spotify porta a compimento la «seconda rivoluzione digitale» della musica, quella dello streaming, della definitiva dematerializzazione del supporto, un cambiamento stavolta non subìto ma più o meno «gestito» (certo, con qualche mal di pancia) da discografici ed editori, in primis da Universal, Sony e Warner, le ultime tre major rimaste sullo scacchiere globale. E la musica non è più artigianato, forse non sarà più arte e magari non avrà più i numeri dell’industria che produce beni (i vecchi Lp e cd) ma diventa servizio: è ovunque, non ce n’è mai stata così tanta in giro, ma nella maggior parte dei casi non «si acquista», al massimo se ne paga la fruizione. Che vi piaccia o meno, le regole del gioco sono cambiate per tutti. Proviamo a vedere chi ha vinto e chi ha perso con le nuove regole.
La «centralità» delle piattaforme
Se ragioniamo di rapporti di forza, l’anello più importante della filiera oggi è rappresentato dalla distribuzione: le piattaforme di streaming, fenomeno dell’ultimo decennio, hanno conquistato il centro della scena. La svedese Spotify, Apple Music ma anche YouTube con il progetto Remix e Amazon con il servizio Music Unlimited adesso danno le carte. Si prendono persino la briga di inviare ai produttori mail con indicazioni su durata e struttura delle canzoni, neanche avessero in tasca l’algoritmo del successo commerciale. Quanto ai titoli delle canzoni, non devono essere troppo lunghi per funzionare. E così dai tempi di You can’t always get what you want siamo passati a quelli di Hello e Perfect. Secondo illustri analisti come Goldman Sachs, sarà merito delle piattaforme se nel 2030 conteremo 41 miliardi di dollari di ricavi per il music business, contro i 15,7 miliardi di valore della discografia e i 9,16 miliardi del diritto d’autore con cui facciamo i conti oggi. Ma per ora la creatura dello startupper svedese Daniel Ek continua a inanellare perdite record e, finanza permettendo, qualche dubbio sulla sostenibilità del business a lungo termine potrebbe venire.
Discografia alle prese con il «value gap»
Case discografiche e società di publishing hanno perso la centralità che avevano prima della grande crisi. Nello streaming individuano un’opportunità importante, soprattutto nelle formule premium, più remunerative per chi produce musica rispetto alla riproduzione gratuita con inserzioni pubblicitarie. Per capirci: YouTube paga meno di un dollaro ogni mille stream, mentre Spotify ne corrisponde sette. È il tema del value gap, la non troppo equa distribuzione dei ricavi da musica tra piattaforme e aventi diritto.
Autori ed esecutori, «anello debole»
Tra gli aventi diritto troviamo ovviamente autori ed esecutori. La musica sono loro, eppure il lavoro che fanno, in quella particolarissima «grande distribuzione organizzata» che chiamiamo streaming, non sempre è ben remunerato. L’accesso al mercato sarà anche molto più democratico rispetto a 20 anni fa, quando registrare un demo tape poteva costarti un milione di vecchie lire, ma il grande salto è un sogno e, nella remota ipotesi che ti riesca, rischi di svegliarti molto presto. Guadagna ancora bene chi il grande salto lo ha fatto prima della crisi e può contare su un repertorio solido dietro le spalle, ma i soldi li fa soprattutto con l’attività live. E dire che i Beatles diventarono i Beatles quando decisero di mollare i concerti e concentrarsi sulla composizione. Nell’epoca di Spotify, chi potrebbe permetterselo?
© Riproduzione riservata