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Scienziati che spiegano la scienza

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Scienza e Filosofia

Scienziati che spiegano la scienza

Elettricità. Alessandro Volta spiega   il funzionamento della sua invenzione, la pila, davanti a Napoleone Bonaparte e a un consesso di colleghi  nel 1801
Elettricità. Alessandro Volta spiega il funzionamento della sua invenzione, la pila, davanti a Napoleone Bonaparte e a un consesso di colleghi nel 1801

Il rapporto tra scienza e società sta cambiando. Di recente, il noto biologo e antropologo Jared Diamond suggeriva agli scienziati di non perdere il “buon senso” e mantenere un’ampia visione delle proprie ricerche, evitando di perdersi nei dettagli. Per spiegare il concetto si rifaceva a una scoperta archeologica sui primi insediamenti umani a sud del confine tra Canada e USA, datata circa 13mila anni fa e sulle prove (accertate) della presenza di tale cultura, detta “Clovis” dal nome della città dove fu rinvenuta. Poi raccontava come quella datazione quasi automaticamente avesse scatenato in altri studiosi la sfida alla ricerca di insediamenti “pre-Clovis”, anche quando i presupposti per la loro esistenza vacillavano, arrivando a descriverne la presenza in Cile. Quindi concludeva, non senza ironia, che tali studiosi dovevano anche contemplare trasporti aerei, con volo non-stop, degli antichi “pre-Clovis” dal confine Canada/Usa al Cile, vista l’assenza di tracce del loro passaggio nei territori intermedi.

Su Nature dello scorso febbraio un interessante articolo dedicato alle generazioni di giovani ricercatori affrontava lo stesso tema, aggiungendo un ulteriore spunto: l’iperspecializzazione disciplinare rischia di allontanare gli scienziati dalla loro missione originale. Si argomentava come essi non possano occuparsi solo della correttezza dei dati, dei geni espressi dopo un trattamento o di allineare correttamente i laser perché, altrimenti, rischiano di perdere la visione globale della scienza, cioè il ruolo sociale delle proprie scoperte. Intendiamoci, è fondamentale che gli scienziati ricerchino negli ambiti più difficili e visionari e producano dati condivisi, ripetibili, basati su solide evidenze. Metodo e dati affidabili sono ineludibili. Solo che tutto ciò, oggi, non è più sufficiente. E quel che manca potrebbe non essere “una perdita di tempo” per lo scienziato ma un modo per valorizzare la straordinarietà del suo impegno e del suo coraggio nell’aprire nuove frontiere. E, proprio perché parte integrante della società, lo scienziato non può percorrere la sua strada in solitudine.

L'articolo di Diamond e quello di Nature ci dicono che “buon senso” e ampiezza di vedute non solo aiutano a capire la validità delle proprie ipotesi di ricerca, ma servono anche a non escludere il mondo dalla fatica, dai fallimenti e dalle gioie dello scoprire, affinché ci si possa tutti preparare alle prossime sfide e conquiste. Lo scienziato che pensa che il suo compito sia “fornire dati inoppugnabili”, “mettere la propria scoperta sul bancone del laboratorio” o “consegnare dati e risultati nelle mani della politica, affinché decida cosa farne”, magari dichiarando di “voler restare fuori dalla discussione pubblica”, specie se complessa, o entrandovi solo con l'intento di coltivare privilegi e un ritorno personale, reca un grave danno alla scienza e alla società.

Chi agisce così non si deve poi stupire se vengono distrutte o bruciate le piante Ogm, se vengono impedite ricerche in campo aperto per il miglioramento genetico delle varietà tipiche nostrane, se le risorse pubbliche destinate alla ricerca sbandano tra procedure non competitive e assegnazioni arbitrarie e discriminatorie, se vengono distrutti gli stabulari dove si svolgono importanti e rigorose – anche sotto il profilo etico — ricerche su animali per terapie umane (e veterinarie), se la maggior parte del milione di firme della petizione europea Stop Vivisection erano italiane, se prima della recente reintroduzione dell’obbligo vaccinale l’Italia era il penultimo Paese europeo per copertura, se ai prodotti omeopatici viene riconosciuta la detraibilità fiscale, se i cittadini “vengono indotti” a credere che i prodotti biologici della grande distribuzione abbiano qualcosa di più – oltre al prezzo — e se il Parlamento italiano a lungo non ha saputo distinguere tra ciarlataneria e medicina, assegnando (per poi correggersi) risorse a una frode ai danni dei malati nota come “caso Stamina”.

Questo elenco - che ripercorre solo gli ultimi quattro anni - impressiona (e addolora), ma aiuta a capire quanto sia ingenua la visione di quanti ritengono che il ruolo dello studioso si possa fermare dentro il laboratorio. E dovrebbe suggerire agli studiosi che i risultati della scienza vanno costantemente spiegati, accompagnati e presidiati (non solo i propri) contro manipolazioni, mode e pregiudizi antiscientifici. Per farlo, gli studiosi devono essere percepiti come una risorsa per la società, capaci di non abbassare mai la guardia sulla propria etica pubblica, coltivando l’interesse generale come il proprio, per aiutare il Paese e la politica con un incremento di dibattito, di risultati e di progresso.

Questa nuova alleanza tra scienza e società, molto sentita anche a livello internazionale, non può avvenire dall’oggi al domani, per il semplice fatto che storicamente è una novità.

Dopo il consolidarsi del pensiero scientifico nel 1600, l’ampliarsi della comunità degli studiosi e delle società nazionali — si pensi ai Lincei in Italia o alla Royal Society in Inghilterra — sino al diffondersi delle università come oggi le conosciamo, hanno portato gli scienziati a vivere isolati. Un tempo foraggiati da regnanti, poi da magnati e dai contributi pubblici e privati, gli studiosi non hanno mai dovuto dar conto “alle masse” delle proprie ricerche. L’alfabetizzazione della popolazione e l’odierna diffusione del web hanno offerto per la prima volta ai cittadini l’accesso virtuale ai laboratori. Nessun cittadino, o pochissimi, sino a qualche anno fa, chiedeva conto delle reazioni avverse dei vaccini (le più basse di tutti i farmaci disponibili), del benessere degli animali negli stabulari (il migliore è nei Paesi occidentali, gli unici ad essere criticati), o del rischio di “contaminazione” (inesistente) tra mais Ogm e tradizionale.

Perciò, mentre la società e i cittadini hanno fatto ingresso come spettatori (per ora) sulle riviste scientifiche e nei laboratori, gli scienziati non hanno “opposto” una spinta uguale e contraria alla chiamata – che riteniamo giusta nei suoi termini partecipativi – della società. E invece, tutte le indagini internazionali dimostrano che le resistenze sociali verso le innovazioni scientifiche si attenuano quando migliora il rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni politiche e scientifiche.

Non è una chiamata alle armi, ma alle singole responsabilità. È dietro il mancato contrasto individuale e quotidiano verso dati falsi, manipolazioni, illusioni e interpretazioni stravaganti che crescerà la prossima Stamina. Reagire a ideologie antiscientifiche limitandosi, come fatto finora, a scrivere (autorevoli) lettere dall’alto di un’istituzione o associazione scientifica, con centinaia di firme, raccolte per settimane, in attesa dell’approvazione collettiva, non è più sufficiente di fronte ai ben più veloci metodi della comunicazione via web e social. Quella del 2001 a difesa degli Ogm, che di firme ne contava 1164, nota come “protesta dei Nobel”, tra cui gli italiani Dulbecco e Montalcini, non ebbe alcun impatto, visto che dopo Pecoraro Scanio tutti i ministri dell’Ambiente e dell’Agricoltura hanno opposto un cieco pregiudizio (che permane oggi) nei confronti del miglioramento genetico delle piante, indifferenti e inconsapevoli del disastro a cui hanno condannato la nostra agricoltura e la bilancia commerciale agroalimentare.

Siamo a pieno titolo nella società della conoscenza e della post-verità, all’estero lo hanno ben capito. Accanto all’accountability della scienza, non dobbiamo dimenticare il critical thinking e l’engagement sociale. Crediamo, come suggeriva l’articolo di Nature, che sia necessario chiamare a raccolta anche quel “nuovo umanesimo” auspicato da Rita Levi Montalcini, capace di fare da collante tra le visioni e le conquiste della scienza e la necessità partecipativa dei cittadini. Per realizzarlo gli scienziati devono cessare le lamentele private e partecipare alla costruzione pubblica, sapendo che “il giusto” non si materializzerà automaticamente senza la fatica di distillarlo, insieme, dalle complessità quotidiane.

Alcune politiche occidentali sembrano pendere verso forme di democrazia diretta, nelle quali i cittadini verranno interpellati per valutare saperi un tempo appannaggio degli esperti. Se gli scienziati non usciranno dai laboratori per parlare di metodo e ricerche ai non-esperti, saranno questi ultimi a entrare nei laboratori. Che l’esito sarà positivo non è affatto scontato.

(Elena Cattaneo, docente alla Statale di Milano e Senatrice a vita;
Andrea Grignolio, docente di Storia della Medicina alla Sapienza Università di Roma e Ricercatore Associato ITB-CNR)

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