Ermanno Cavazzoni è un geniale scrittore manierista alle prese con un particolare manierismo della nostra tradizione. I poeti che risuonano nelle sue pagine - Ariosto, Boiardo, Pulci - hanno obbligato l’epica a una leggerezza e a una stilizzazione che arriverà al Calvino degli Antenati e del Castello, e hanno lasciato la pesanteur all’epos dei nordici (fino all’attuale e “pesantissima” fantasy). I loro cavalieri sono automi leggerissimi, «insetti già nell’aspetto: l’esoscheletro della corazza. E ancora di più nell’etologia»: ognuno con un capriccio o un chiodo fisso, un obbligo cui ubbidisce qualunque cosa accada, come le api o le formiche: «Uno cerca la spada, l’altro insegue la sua bella, la trova, la perde, la cerca ancora…» (così Cavazzoni stesso in un’intervista a “Repubblica” del 2007).
Ora, nella Galassia dei dementi (2018) lo scrittore trasferisce la vecchia, ironica, stramba cavalleria - con tutti i suoi tic e puppets, draghi e durlindane - nella fantascienza, come in un suo inevitabile “luogo naturale”. È l’anno 6000, Bologna è sepolta sotto monticelli di rovine su cui si è posato un manto d’erbe elettriche e malate. Nonostante una grande catastrofe abbia messo a soqquadro il mondo, gli umani un tempo guidati da un dicastero o direttorio di robot immortali, detti Santi Padri, vivono ancora protetti dalle macchine e perfettamente oziosi. Come nelle grandi utopie -Erewon, Nowhere- il lavoro non esiste più sulla terra e gli uomini impiegano tutto il loro tempo in distrazioni e ricreazioni. Ma, a differenza dell’artigianato chic di Arts and Crafts (Nowhere, di Morris), si tratta qui perlopiù di morbosi collezionismi di chincaglieria “moderna”: lucchetti, grucce, bottoni, calcoli biliari recuperati nelle città morte, tra scavi e tombe. L’utopia si è voltata, come spesso accade, in distopia e l’emancipazione dal lavoro in noia e in follia.
Custodita e servita, per quanto possibile dopo la Grande Devastazione, dal lavoro pianificato di robot, droidi, ginecoidi e automi diversi, l’umanità regredisce necessariamente inerte, stupefatta, fosca, e il campo è preso dalle macchine che, al contrario, accentuano movenze umane e persino sentimentali. Il droide Cupido, ad esempio, congegnato per difendere ad ogni costo la femmina umana, qui eccede la sua funzione e si batte con il vecchio robot Xenofon in difesa della ginecoide Dafne, e nell’insieme è come se si trattasse non di tre automi o macchine celibi all’opera, ma di Orlando, Ferraù e Angelica che fugge. Se nel vecchio mondo della cavalleria, secondo Hegel, la dissoluzione comica non tocca ma anzi rinforza l’umano e «tutto quel che di nobile e grande vi è in esso», i droidi cavalieri di Cavazzoni stringono tra loro un patto di umanità “cavalleresca” che tra gli uomini stessi appare sempre più volubile. Gli epici insetti con esoscheletro corazzato di un tempo, cioè, diventano insetti meccanici dotati di una sembianza o rimanenza d’anima umana.
Dietro questa capriola si nasconde una teoria o meglio un’anti-teoria generale della letteratura, nonché una metafisica o un’anti-metafisica cui Cavazzoni, da Vite brevi di idioti (1994) a Gli scrittori inutili (2010) a Il pensatore solitario (2015), è assolutamente fedele: nutrito della sua epica sghemba, da sempre scrive romanzi eccentrici, forzando il genere, anzi ignorandolo o addirittura disprezzandolo, quasi che il romanzo fosse un noioso e tramortito idolo buono per qualche professore o, d’altra parte, una specie di slot machine adorata dal mercato e che, di tempo in tempo e a suo arbitrio, rilasci montagne di spiccioli. «Queste frasi: romanzo di formazione, romanzo mondo, anche la sola parola romanzo mi stanno sui nervi», leggiamo in un’intervista del 2015, dove il nervosismo è dovuto, presumo, all’attuale e sofistica invadenza di mappe e teorie e laboratories d’ogni genere sul romanzo e alla simultanea ma del tutto autarchica e ingenua invadenza di romanzi veri e propri. Perché parlare ancora di un romanzo che, come quel cavaliere del Boiardo (LIII 60), «del colpo non accorto,/ andava combattendo ed era morto»? Perché insistere?
Capisco il nervosismo di Cavazzoni. Ne capisco anche la via di fuga: il fiume dei suoi racconti (col timbro di un’oralità inarrestabile) non conviene al mercato né alla lingua globale. È un’eccezione, uno strappo, una specie di procedura privata, una confidenza fatta agli amici più o meno clandestinamente, «come se ci fosse ancora il nazismo o il regime sovietico». E si tratta di una vecchia storia padana, dopotutto: il conte Matteo Maria Boiardo leggeva ad alta voce l’Innamorato ai suoi ospiti nel castello di Scandiano oppure al suo amico Ercole d’Este a corte a Ferrara. Leggeva per scacciare la noia e i cattivi pensieri (i suoi, i loro) e non finì mai di leggere né di scrivere perché i cattivi pensieri, da parte loro, non disarmavano. Che altro scopo può mai avere la letteratura? E perché un racconto dovrebbe concludersi e stabilirsi in una forma quando al contrario può essere slegato e affrancato dalle leggi della proporzione e dell'esclusione?
Adempiendo, da parte sua, ai precetti di una traditio eccentrica rispetto al canone formalistico, euritmico e “spirituale” della nostra letteratura, Cavazzoni non dissimula peraltro il suo materialismo, voltato in un buffo integrale che ha pochi eguali in Italia. Qui, nella Galassia dei dementi, ad esempio, se un patto d’eterno amore coniugale non è più plausibile tra umani imbambolati e obesi, il concetto stesso di eternità passa a droidi e robot innamorati e teologi che troveranno, si presume, un loro Sant’Agostino e un loro San Tommaso in qualità di maestri. Oppure: se la padrona in salotto dà segni di squilibrio e qualcuno propone di portarla all’emporio riparazioni, il referto dei servi (droidi) nelle cucine è immediato: «Gli umani non sono aggiustabili». Così, da parte loro, i Santi Padri Robot rappresentano, nel quadro generale, la divina Provvidenza che tesse la tela delle vite degli uomini. Ma quando un giorno spariscono (les dieux s’en vont, anche nell’anno 6000), nessun uomo né donna sul pianeta Terra si accorge che non ci siano. Infine, se il sicario Mordiàc - umano ma manomesso e “teleguidato” dagli stessi robot - deve uccidere il Presidente, proprio nell’istante fatale si innamora, anche lui, della ginecoide Dafne apparsa ex abrupto sulla scena e cade a terra morto per amore (o per sincope), da assassino divenuto vittima.
In questa ridda o girandola comica si nasconde tuttavia la radice amara della comicità stessa cui Cavazzoni di quando in quando accenna di sbieco nei suoi scritti saggistici o nelle interviste: «Siamo in un grande anfiteatro appoggiato a una pellicola, e sotto la lava incandescente, il gelo siderale sopra la testa. Se va bene campiamo un po’ di anni, poi basta. Fine della commedia. Vi sembra una cosa seria? A me no, è tutta una comica» (2015). L’immagine è classica, addirittura lucreziana, e il tono della protesta, nonostante la suavitas d’autore, è alto. Ricorda Leopardi. Ed è singolare che la Tradizione e la Meditazione rientrino per la finestra nel Luna Park o nel Far West di uno scrittore studiatamente giocoso, sia pure sotto forma di Palinodia e Paralipomeni.
Ermanno Cavazzoni, La galassia dei dementi, La nave di Teseo, Milano, pagg. 666, €24,00
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