Il disorientamento, per non dire la confusione, in cui si trovano, da anni, la ricerca e la pratica clinica della malattia di Alzheimer (AD) e della demenza senile sono confermati dalle 62 pagine del rapporto annuale, appena uscito, dell’Alzheimer’s Association degli Stati Uniti. Leggere in un fascicolo di una rivista specializzata tesi opposte sull’AD è, da tempo, quasi la regola. Sorprende trovarle nello stesso lavoro. Dopo aver ribadito la triste realtà che «nessuno dei trattamenti farmacologici a disposizione contro la AD rallenta o interrompe il danno e la distruzione dei neuroni, che rendono la malattia fatale» si sottolinea che l’unico aiuto ai pazienti è il ricorso a terapie non farmacologiche, cioè a misure palliative.
Il loro principio è che i dementi possano vivere il più a lungo possibile così come la loro mente alterata li fa essere, senza costrizioni. Si avverte, a ragione, che nessuna stimolazione cognitiva è più efficace di altre. È opportuno, fin quando va, sollecitare empiricamente le inclinazioni dei pazienti, alcuni dei quali provano soddisfazione nella pittura, altri a sentire o a far musica, altri a giocare con le bambole, ecc. Apatia, depressione, insonnia, agitazione ed aggressività, che spesso aggravano la demenza e impediscono anzitempo la convivenza, vanno curate. Si insiste sulle misure preventive. Si tratta delle raccomandazioni generiche per stare in buona salute e vivere più a lungo: non fumare, poco alcol, esercizio fisico, dieta controllata, peso corporeo nei limiti, cura del diabete e soprattutto dei disturbi cardiovascolari. Esse sembrano ridurre l’incidenza di nuovi dementi di un terzo.
Dati epidemiologici attendibili e considerazioni cliniche hanno spinto l’Organizzazione mondiale della sanità (WHO) nella seduta del 29 maggio 2017 a raccomandare un piano di azione globale di prevenzione della demenza come priorità della politica sanitaria mondiale nei prossimi anni. Prevenzione generica e misure palliative specifiche sono provvedimenti essenziali. Il World Alzheimer Report dell’Alzheimer’s Disease International ha dedicato il fascicolo del 2016 ai provvedimenti palliativi, dal momento che non esiste trattamento che arresti o rallenti il decorso della sindrome demenziale. Alla prevenzione e alle misure palliative dedica molte pagine anche l’attuale rapporto, con particolare riferimento agli aspetti finanziari e sociali nei vari stati degli USA.
Fin qui tutto bene. Quando il testo tratta i presunti vantaggi della diagnosi precoce, da porsi in persone sane di mente o quando insorgono i primi segni dell’invecchiamento cerebrale, che diventa demenza solo in circa un quarto dei casi, esso tracima nell’insensatezza. Si sostiene che «prima inizia il trattamento, più il malato sarà in grado di padroneggiare i suoi sintomi cognitivi». Quale trattamento, farmacologico e non farmacologico, se s’è detto che non esiste? Lo stesso rapporto sottolinea che «è importante notare che le medicine correnti ...non hanno portato beneficio». Non ci si rende conto che perseguire la «diagnosi precoce» della demenza senile, cioè verificare se nel cervello di persone non dementi ci sono placche amiloidi e neurofibrille, che si trovano, ma non sempre, nei cervelli dei dementi, anticipa di anni l’angoscia di una malattia che insorge solo in circa un quarto delle persone avanti negli anni?
Qualche buontempone obietta che non tutti coloro nei quali si trovano placche e neurofibrille diventano dementi perché muoiono prima per altre cause. Anche se la morte preserva talora dalla demenza, perché avvelenare parte della vita con un’angoscia inutile? «L’ipotesi degli amiloidi divenne un’ortodossia scientifica talmente forte» per Zaven Khachaturian, presidente della campagna di prevenzione dell’Alzheimer e direttore della rivista Alzheimer’s & Dementia, «da essere accettata per ragioni di fede e non per evidenza. Nessuno ha fatto un passo indietro e si è posto la domanda fondamentale se le nostre premesse di base circa la malattia fossero corrette»(Nature 510,26-28,2014). Già nel 2011 diversi specialisti americani avvertirono che la diagnosi cosidetta precoce della presenza di amiloidi e neurofibrille non aiutava i pazienti, ma favoriva la ricerca (Alzheimer’s & Dementia 7,257-262,2011). Oggi si sa che non serve nemmeno alla ricerca perché amiloidi e tau non sono la causa della demenza, come già sospettato da Alois Alzheimer nel 1911.
Nessun cenno, come di regola quando si parla di diagnosi precoce dell’AD, sull’aspetto etico di una simile procedura: che cosa dire alla persona non demente che si è sottoposta all’indagine, e alla sua famiglia, se si trovano placche e neurofibrille nel cervello? Sorprende infine che nel lungo rapporto non si faccia riferimento alla riflessione, che acquista sempre più consensi, circa la natura genetica ed epigenetica della demenza senile. È sempre più chiaro che essa non è monocausale ma una sindrome di più cause. Ciò cambia l’approccio concettuale e pratico alla demenza: si valorizzano le misure preventive, che agiscono sull’epigenesi della demenza. Aveva ragione Khachaturian a paragonare la teoria degli amiloidi ad una religione: ci si crede anche se contrasta con la ragione e l’evidenza. La confusione nel campo dell’AD non finirà presto.
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