Se vi è un settore su cui occorre indirizzare fondi e ricerche scientifiche nei prossimi anni, questo è la produzione di cibo. Di ciò si parlerà nella seconda edizione del Food & Science Festival che si terrà a Mantova dal 18 al 20 maggio. In Italia, e in parte anche in Europa, per la maggior parte dei cittadini parlare di cibo significa perlopiù parlare di eccellenza, di prodotti tipici e “naturali”. Tutte cose rilevanti, ovviamente, di cui l’Italia può in parte andar fiera. Il futuro che ci aspetta però è molto più vasto, ed è basato - come ricorda lo stesso motto del festival «Coltiviamo conoscenza» - proprio sulla scienza e la tecnica delle coltivazioni, le uniche a poter salvare assieme prodotti tipici e mercato globale.
Secondo le Nazioni Unite, infatti, entro il 2050 non solo dovremo sfamare 9,8 miliardi di persone, ma l’aumento di siccità, alluvioni e calamità causate dal cambiamento climatico ridurranno la resa delle superfici coltivabili. Un problema urgente, a cui si somma un dato (parzialmente) paradossale: dal 1982 al 2012, mentre il numero di borse di dottorato in ambito biomedico è cresciuto in modo quasi esponenziale, quello in scienze agrarie è rimasto costante; ciò significa che le università e la politica non hanno puntato sul settore più urgente e redditizio, in termini di enorme domanda e scarsa offerta, di questo secolo.
Il perché di questo apparente paradosso può essere ben spiegato con una storia d’eccellenza tutta italiana, che sarà oggetto della conferenza «Nero come un pomodoro» che Pierdomenico Perata, ordinario di fisiologia vegetale e Rettore presso la Scuola Superiore S. Anna di Pisa, terrà il 19 maggio alle 11 in Piazza Mantegna.
La storia inizia nel 2006 con un finanziamento pubblico, ovvero con un Prin (Progetti di Rilevante Interesse Nazionale), vinto da un consorzio di quattro università pubbliche (Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, e le Università Tuscia di Viterbo, Modena-Reggio Emilia e Pisa) che nel 2009 lancia un progetto per produrre un pomodoro migliorato - non geneticamente, purtroppo, come vedremo -, cioè capace di un maggiore apporto nutrizionale e di proprietà curative, secondo i canoni dell’allora nascente «nutraceutica», la disciplina che studia la relazione tra cibo e salute. Dopo vari tentativi di selezione vennero incrociati mutanti di due specie selvatiche e si ottenne un pomodoro dalla buccia scura e violacea, nominato appunto sunblack, con proprietà antiossidanti (antinvecchiamento), antitumorali e antinfiammatorie dovute a un mix di biomolecole come le vitamine C ed E, i licopeni, i fenoli e soprattutto a un elevato contenuto di antociani nella buccia. Anche mirtilli, more e melanzane hanno antociani, ma sono cari e non sono parte della dieta quotidiana, mentre i pomodori sono tra gli ortaggi più consumati al mondo, coltivabili in tutte le stagioni, in campo aperto e in serra, e dunque i sunblack assieme ad altri prodotti nutraceutici rappresentano un primo passo verso il cibo del futuro. Commercializzati da una società di piantine da orto di Pisa, i sunblack sono sul mercato hobbistico da circa tre anni - quindi quasi 10 sono stati necessari per metterlo in commercio -, per un periodo sono stati venduti anche da una nota cooperativa alimentare, e ne vengono venduti diverse centinaia di migliaia l’anno: il che produce royalties, soldi che tornano nelle casse delle università, arricchiscono il territorio e implementano asset aziendali. Tutto qui? Non esattamente.
Prima che venisse montata una cieca campagna ideologica contro gli Ogm all’inizio degli anni duemila, anche altri Paesi tentarono la stessa strada, come il laboratorio britannico di Cathie Martin che a Norwich creò il pomodoro geneticamente modificato purple tomato, migliore e più sicuro del sunblack. I geni inseriti nel pomodoro (transgenesi) rendevano non solo la buccia ma anche la polpa ricca di antociani, la sperimentazione durò diversi mesi e non anni, e soprattutto fu subito nota la sequenza genetica, le proteine prodotte e quindi la sicurezza del prodotto. Nel caso italiano invece dovettero aspettare che funzionasse alla cieca un incrocio «naturale», riproponendo ciò che per millenni hanno fatto gli agricoltori, ovvero incrociare varietà diverse sperando che la combinazione “casuale” di caratteri (geni) generasse un buon frutto, secondo la logica: meglio un incrocio casuale ma naturale, che uno certo ma ottenuto dall’uomo - logica che si basa su uno degli errori (bias) cognitivi più radicati della natura umana.
Dopo dieci anni, infatti, delle due sequenze responsabili del suo miglioramento (ATV e AFT) i ricercatori italiani del sunblack ne hanno identificata solo una (AFT). Quelli britannici invece furono persino in grado di dimostrare che i loro pomodori Ogm erano così ricchi di antociani che se inseriti nella dieta facevano sopravvivere un ceppo di topi con una forte inclinazione al cancro, che invece morivano se nutriti con pomodori “naturali”. Inizialmente l’Inghilterra li commercializzò ma poi anche lì arrivò il pregiudizio anti-Ogm, oggi cavalcato dalle lobby economiche della grande distribuzione del biologico, che, ricordiamolo, producono il 3% del fabbisogno per un’élite, con un prezzo da 2 a 4 volte lo standard. Alcuni ricercatori optarono per un atto dimostrativo mangiando pubblicamente i pomodori purple (avevano un sapore identico dagli altri) e vennero accusati di «disperdere nell’ambiente pericolosi semi Ogm». A quel punto vennero vietati, con un potenziale danno sulla salute persa della popolazione. Per le successive sperimentazioni gli inglesi furono costretti a spedire i loro pomodori Ogm in Canada, che a sua volta fu obbligato a rispedire per i test solo il succo privo dei semi.
Per «coltivare conoscenza», come suggerisce il Festival, non possiamo continuare a rifiutare i prodotti Ogm con meno pesticidi, più sicuri e terapeutici, pur di demandare il nostro destino a una magica Natura buona. Anche perché le economie emergenti, più laiche e inclini alla scienza, stanno già producendo prodotti migliori e più competitivi dei nostri grazie al nuovo metodo di miglioramento genetico, il Crisper, che non è rintracciabile nei prodotti. A noi la scelta.
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