Cultura

I 200 anni di Cova, il salotto «buono» del cappuccino di Milano

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I 200 anni di Cova, il salotto «buono» del cappuccino di Milano

La cronaca vuole che il «cappuccino schiumoso più buono d’Italia» sia nato da Cova, a Milano, negli anni Settanta, ma la leggenda vuole ancora di più, ricamando intorno a quel beverone una trama pruriginosa e assai saporita: pare, infatti, che nell’Ottocento la contessa Julia Samoilov acquistasse latte fresco ogni mattina per un bagno in stile Cleopatra, salvo poi rivenderlo al vicino caffè Cova «per farne ottimi cappuccini con un valore aggiunto malizioso».

Spregiudicata ed eccentrica, l’ex amante dello zar Nicola I era la regina del quartiere con le sue tresche, i suoi amorazzi e pure i suoi «Gran Balli dei gatti». Il suo salotto aveva un unico rivale: la pasticceria Cova, una delle più antiche di Milano, distante pochi metri dal suo palazzo. D’altronde, «in Italia i caffè sono una specie di salotto», scrive Alain Elkann nella prefazione al libro Cova. Montenapoleone 1817, uscito in occasione del bicentenario e impreziosito dalle fotografie di Giovanni Gastel e Harald Gottschalk.

Autrici sono Paola e Daniela Faccioli, figlie dello storico proprietario Mario, che rilevò il caffè nel 1988 e lo guidò fino al 2013, quando passò al gruppo LVHM Moët Hennessy Louis Vuitton, pur mantenendo la gestione delle sorelle Faccioli. Negli anni Cova è diventato un prestigioso marchio del made in Italy con sedi all’estero dal 1993: prima a Hong Kong, poi in Giappone, Cina, Taiwan... per una trentina di locali sparsi per il mondo.

La sua storia inizia duecento anni fa, quando un intraprendente 23enne – oggi lo chiameremmo startupper – decise di aprire un «Caffè del Giardino» di fronte alla Scala: il ragazzotto si chiamava Antonio Cova ed era umile figlio di salumieri e ufficiale napoleonico da poco in congedo. Ebbene, la startup funzionò e cambiò subito il nome in «Offelleria Cova», per brevità chiamata Cova o «il Cova», come impone la moda lombarda di appiccicare ovunque l’articolo determinativo.

Da lì, su quei tavolini di frassino ungherese, passò mezza Italia (che conta): in primis i compositori di stanza alla Scala, da Verdi a Puccini, da Toscanini a Mascagni, con incursione peperina di Eleonora Duse e Arrigo Boito, che si innamorarono segretamente proprio al Cova. Questo caffè «è un teatro della vita», col bancone per palcoscenico e avventori e camerieri a giocarsi il ruolo di primattori.

Qui sfilarono pure Garibaldi, Mazzini, Marlene Dietrich, Luchino Visconti, Maria Callas e Wanda Osiris, sempre scortata dall’«agitatissimo» cagnolino. Ernest Hemingway, addirittura, cita il “bar” in Addio alle armi, laddove il protagonista – prima di rientrare in ospedale – vi si ferma per comprare una scatola di cioccolatini alla sua bella Catherine, approfittandone per bere un «Martini liscio».

Viene poi la gente comune, o quantomeno anonima, come la sciura che si vergogna a ordinare un secondo Campari, o il conte che flirta con l’amante e per poco non viene sorpreso dalla moglie. Ma più lungo è il codazzo dei paparazzi, dei vip, dei politici, delle élite della borghesia, compresi illuministi, intellettuali, artisti e persino carbonari, che a metà Ottocento confabulavano al primo piano, mentre il piano terra ospitava ignari soldati austriaci.

Il Cova rispecchia da sempre il temperamento dei suoi proprietari: volitivo e fumantino, cortese ma agguerrito. Il fondatore fu nominato a capo di una barricata durante le Cinque Giornate del 1848 e, anche dopo la devastazione del secondo conflitto mondiale, il locale riuscì a risorgere dalle ceneri a qualche centinaio di metri: nel dopoguerra, infatti, la mondanità traslocò da via Manzoni a via Montanapoleone, e il caffè la seguì, trasferendosi a Palazzo Marliani, disegnato dall’architetto «scaligero» Piermarini.

Di direttore in direttore e di proprietà in proprietà, il Cova non perse smalto né la propria preziosa identità: Faccioli, ad esempio, subentrò nel 1988, con la tipica operosità lombarda e il «carattere del “facciamo”», scrisse Lina Sotis, raccontando la Milano degli anni Sessanta, quando il bistrot era frequentato da industriali (i Rizzoli, i Moratti, i Falck), editori e giornalisti (Bompiani, Buzzati), playboy e fotografi di moda.

Che il Cova sia un’oasi felice lo sapevano già i clienti degli anni del proibizionismo, in cui era vietato servire alcol nelle giornate elettorali, e perciò i baristi allungavano gli aperitivi nelle tazze del cappuccino. Rinomato per la sua piccola pasticceria, dalle torte ai tramezzini, il caffè è ancor più noto per le sue uova pasquali e soprattutto per il suo panettone, di cui è una vera e propria «reggia».

Qui tutto è home-made, con materie prime ricercate e genuine, vedi il salmone di una sperduto allevamento scozzese o il pomodoro pachino di una «modesta tenuta in Puglia, che ancora oggi usiamo nel nostro Bloody Mary». E poi ovviamente al caffè fanno bene il caffè: ne servono ben 36 tonnellate all’anno.

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