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L’avventura dell’universo

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nello spazio

L’avventura dell’universo

Cosmologo, John Barrow
Cosmologo, John Barrow

Per millenni i filosofi, gli astronomi e gli scienziati hanno concepito l’universo come una sorta di palcoscenico, un’arena fissa, immutabile, nella quale i pianeti, le stelle e altri corpi celesti erano stati messi in moto.

Albert Einstein ha spazzato via tutto ciò nel 1916 con la teoria della relatività generale: mostrò che lo spazio e il tempo dovevano essere considerati entità dinamiche con una struttura, un tasso di cambiamento e un flusso plasmati dai contenuti materiali dell’universo. Invece di un palcoscenico fisso, lo spazio è semmai un trampolino, foggiato dal movimento della materia e dell’energia su di esso.

La cosmologia prima di Einstein mi fa venir in mente un ramo della storia dell’arte. Potevamo dipingere qualunque immagine dell’universo ci piacesse: poteva essere un cubo o una gigantesca piramide cosmica o una successione di tartarughe sistemate l’una sopra l’altra, e nessuno era in -10

grado di dimostrare il contrario. Ma Einstein ha anche trasformato la cosmologia in una scienza, fornendo un insieme di equazioni matematiche le cui soluzioni (e ce n’è un numero infinito) descrivono tutte quante interi universi possibili. Queste descrizioni matematiche fanno previsioni che gli astronomi vanno poi a controllare con telescopi e satelliti.

Per nostra fortuna, particolari soluzioni delle equazioni di Einstein ci danno un’ottima approssimazione del nostro universo, mostrano un comportamento molto semplice e ci consentono di fare previsioni verificabili sulla natura del cosmo. Per fortuna, il nostro universo sembra aver evitato alcune delle complessità permesse dalle equazioni.

Poco a poco abbiamo imparato molte cose su come l’universo è evoluto da un passato semplice alla complessità delle galassie, delle stelle e dei pianeti che vediamo oggi. Strada facendo, abbiamo anche trovato connessioni inaspettate tra le proprietà dell’universo e le condizioni necessarie perché la vita ci esista e continui ad esistere.

La zona abitabile

Dopo Einstein, il lavoro di Georges Lemaître, Edwin Hubble, Milton Humason e altri ha dimostrato che l’universo è davvero in uno stato di cambiamento generale, si espande in continuazione come un grosso pezzo di pasta lievitata messa al forno.

Se tornassimo indietro nel tempo a pochi milioni di anni dopo il Big Bang, troveremmo un universo migliaia e migliaia di volte più piccolo e più caldo di quello odierno. In quelle condizioni estreme, potevano esistere solo protoni, elettroni, fotoni e altre particelle elementari. Non ci sarebbero strutture: niente galassie, niente stelle, niente pianeti e niente gente come noi.

Dopo un’espansione di centinaia di migliaia di anni, l’universo si raffredda abbastanza perché i protoni catturino elettroni e formino così degli atomi e poi delle molecole semplici. Pochi miliardi di anni ancora, e parte di quella materia accumula altra materia e si condensa (attraverso processi complessi che oggi non capiamo fino in fondo) in stelle, galassie, ammassi di galassie e infine in sistemi planetari, compreso il nostro sistema solare.

Da quel momento, le previsioni a lungo termine si fanno piuttosto cupe. Nei prossimi venti miliardi di anni tutte le stelle, anche il Sole, finiranno per esaurire il proprio combustibile e si estingueranno, trasformando l’universo in un grande cimitero di mondi morti. Esistiamo perciò in un intervallo propizio della storia cosmica, in una zona abitabile del tempo per così dire, dopo la formazione delle stelle, ma prima che si spengano tutte.

Il vantaggio della vecchiaia

Il fatto stesso che esistiamo in questa zona è inestricabilmente legato alle proprietà più fondamentali dell’universo, prima fra tutte la sua età estrema.

Per quanto riguarda gli elementi, l’universo giovane era composto quasi esclusivamente da idrogeno (75%) ed elio (25%), con soltanto minuscole tracce di tutto il resto. Il carbonio, l’ossigeno e gli altri elementi pesanti che formano la vita di oggi non sono comparsi pronti per l’uso all’inizio dell’universo, ma sono stati forgiati nelle fornaci di stelle morenti, dove gli atomi di elio si sono combinati in berillio, il berillio con altro elio per formare carbonio, il carbonio con l’elio per formare ossigeno e così via fino a formare tutti gli elementi più pesanti.

Ci sono voluti miliardi di anni per completare le reazioni che hanno prodotto i materiali da costruzione della biochimica e della complessità. Non dovremmo quindi essere sorpresi di ritrovarci in un universo con la veneranda età di 14 miliardi di anni, universi molto più giovani non avrebbero avuto il tempo di produrre gli ingredienti di base della complessità biochimica.

Né dovrebbe sorprenderci la dimensione enorme dell’universo. La sua immensità ne rispecchia l’immane vecchiaia. In effetti, non potremmo esistere in un universo significativamente più piccolo del nostro. Un universo grande come la Via Lattea, con i suoi miliardi di stelle e di pianeti, forse ci sembra una scena abbastanza ampia perché la vita emerga, ma avrebbe poco più di un mese, appena il tempo per ricevere il conto della carta di credito, figurarsi per evolvere una vita complessa.

Si sente dire spesso che in un universo così vasto, di sicuro non ci sarà vita soltanto sulla Terra. Può anche darsi, ma resta vero che l’universo dovrebbe avere le dimensioni attuali perfino per sostenere la vita in un avamposto solitario. D’altronde il vuoto sconfinato dell’universo non deve neppure suggerirci che è profondamente antitetico alla vita.

(traduzione di Sylvie Coyaud)

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