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Il contraddittorio scomparso: è tempo di monologhi

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tv e comunicazione politica

Il contraddittorio scomparso: è tempo di monologhi

Qualche sera fa, nel pieno delle discussioni, non sempre composte, che hanno preceduto la formazione dell’attuale Governo, il commissario Agcom Antonio Nicita poneva con un tweet una questione sulle forme dell’informazione televisiva: «C’è il modello #portaaporta di ieri con esponenti singolarmente ascoltati a turno. Poi c’è il modello #dimartedi con prima un esponente singolo e altri dietro le quinte che ascoltano, e dopo un esponente, di analoga forza parlamentare, con 6 giornalisti. Addio al #contraddittorio?». Rispondeva Marco Congiu, giornalista di SkyTG24, che in alcuni casi quello è «l’unico modo. C’è un partito che accetta di partecipare e rispondere alle domande solo se in studio non ci sono suoi avversari politici».

Quello emerso da questo dialogo è un fenomeno reale e diffuso. Sta progressivamente scomparendo la trasmissione incentrata sul confronto fra leader politici, per fare spazio a un dialogo a tu per tu con il giornalista, che rischia di diventare un monologo se l’intervistatore non riesce a imporre argomenti e tempi (o non vuole).

Va detto che la comunicazione politica occupa svariati media. Considerare la televisione a sé, però, non sembra sbagliato per più di una ragione.

Anzitutto, il rapporto Agcom del febbraio 2018 ribadisce come il “piccolo schermo” rimanga il mezzo più utilizzato dagli italiani: «La televisione si conferma il mezzo con la maggiore valenza informativa, sia per frequenza di accesso anche a scopo informativo, sia per importanza e attendibilità percepite».

La tv, poi, è centrale non solo per ragioni “quantitative”. Il modello di comunicazione politica che sembra oggi imporsi in rete, specie sui social network, è caratterizzato dalle “filter bubble”. In altri termini, poiché l’utente è portato a scegliere solo le informazioni che consolidano le proprie credenze, spesso si creano “bolle” impermeabili alla critica, ove prospera un pensiero unico che si fa sempre più radicale. In assenza di contraddittorio, la televisione rischia di replicare lo stesso schema, nel quale i “tifosi” si limitano ad ascoltare la voce del loro idolo, magari cambiando canale quando compare l’avversario politico. Se così è, non pare irragionevole indurre il mezzo che è in grado di farlo, a raccogliere, presentare e far confrontare in un unico contesto le idee più diverse.

Infine, una emittente pubblica, finanziata dal canone, ha senso solo se si mantiene quale agorà aperta, luogo di dibattito non partigiano ove rappresentare la diversità culturale di una nazione. Ciò permette di valorizzare la sua funzione di “ponte” tra le differenti opzioni ideologiche, in un contesto tecnologico che, come accennato, secondo alcuni tende a ridurre i luoghi di confronto.

Domandiamoci: esistono regole che pongono un argine ai soliloqui televisivi?

Una prima indicazione, per così dire “di principio” si trova nella legge n. 28 del 2000, quella sulla par condicio, da cui si ricava in più passaggi come i politici non debbano essere i “signori dello schermo”. Di conseguenza non può spettare a loro la scelta del “format” a cui partecipare.

Ma esiste una sorta di “obbligo al confronto”? Forse un obbligo no, ma una forte raccomandazione sì. La legge assicura parità di condizioni «nelle tribune politiche, nei dibattiti, nelle tavole rotonde, nelle presentazioni in contraddittorio di programmi politici, nei confronti, nelle interviste e in ogni altra trasmissione». Si può notare come la maggior parte delle modalità preveda appunto un confronto diretto.

Una conferma in questo senso si trova nella sentenza che due anni più tardi ha rigettato i dubbi di incostituzionalità di tale normativa. Per la Corte Costituzionale, la logica della legge sta nel diritto dei cittadini-elettori di essere informati nel modo più completo e obiettivo. Tale diritto è connesso «al corretto svolgimento del confronto politico su cui in permanenza si fonda, indipendentemente dai periodi di competizione elettorale, il sistema democratico». La Corte in quest’ottica ha sottolineato come nelle trasmissioni politiche «deve essere rigorosamente osservato il criterio della partecipazione in contraddittorio e del confronto dialettico tra i soggetti intervenienti, secondo il canone della pari opportunità». La previsione di un contraddittorio, quindi, sembra ben più che suggerito dall’ordinamento. Certo, le difficoltà del singolo giornalista, come segnalava Marco Congiu, sono oggettive e non irrilevanti. Tuttavia, riteniamo che se l’informazione vuole avere quella autorevolezza che la rende un vero meccanismo di controllo del potere, gli editori pubblici e privati debbano considerare l’ipotesi di assumere una posizione dura su questo punto. Una posizione che potrebbe anche giungere a informare il pubblico di quali persone o partiti, pur invitati, non accettano il confronto come modalità di partecipazione alle trasmissioni.

Del resto, è nelle fasi “normali” lontane dalle campagne elettorali, che si può ricostruire quella normale dialettica politica quando le classi dirigenti si confrontano a viso aperto, secondo quell’insuperato modello di dialettica democratica che è il question time a Westminster, ove ogni mercoledì il primo ministro e il leader dell’opposizione duellano uno di fronte all’altro sui grandi temi politici del Regno.

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