«È l’anima, o Inusia, a dare l’aspetto a tutto ciò che vive. Per l’uomo è un minuscolo uomo, per la renna una minuscola renna, e così, per tutti gli animali, una miniatura di quello grande, e sta in una bolla piena d’aria nell’inguine. Da quella derivano aspetto, pensieri, forza, e vita: l’anima rende uomo l’uomo, renna la renna, tricheco il tricheco, cane il cane e così via. Se subisce violenza, o se è ferita dalla violazione di un tabu, diventa uno spirito malvagio che causa sventura o morte». Mentre fuori infuriava una tormenta e la temperatura scendeva sotto a meno cinquanta gradi centigradi, nel tepore di un igloo appoggiato sul Bacino di Foxe - nell’estremo Nord canadese -, lo sciamano Aua della tribù degli iglulingmiut di Iglulik raccontava questo ed altro all’esploratore, etnografo e antropologo danese Knud Rasmussen. Rasmussen capiva la sua lingua perché era nato e cresciuto in Groenlandia con una nonna figlia di un’indigena. La donna gli aveva insegnato uno dei quattro dialetti che compongono l’idioma degli inuit formando un continuum nell’Artico.
Il cinquantenne Aua, quella sera del 1923 spiegava che «il maggior pericolo della vita risiede nel fatto che il cibo dell’uomo è composto di anime». Era per questo, per ingraziarsi gli spiriti delle prede che mettevano sotto i denti, che gli inuit seguivano rigide prescrizioni. Alcune potevano avere l’effetto di preservare l’ambiente o migliorare l’igiene, altre erano completamente insensate. Ad affliggerli c’era anche il problema del nome, che richiedeva prudenza: Aua raccontava infatti che dietro ogni essere umano cammina un enorme corteo di spiriti di tutti i suoi omonimi defunti, questi lo appoggiano e lo aiutano finché rispetta le regole di vita. Ma se vìola un tabu o fa qualcosa di sgradito ai morti, tutti gli amici invisibili gli si rivoltano contro. Allora è perduto.
Rasmussen ascoltava attentamente, era la seconda volta che incontrava Aua. Lo aveva conosciuto l’anno prima, quando una sera dall’oscurità «spuntò una lunga slitta con la muta più selvaggia che avessi mai visto». Dopo un tragitto a rotta di collo giunsero «a un grande lago dove le finestre degli igloo, fatte di pelle di intestino, rilucevano verso di noi con il loro caldo bagliore arancione». Aua lo aveva accolto cordialmente in casa sua, un grosso complesso di igloo ingegnosamente collegati. «Le cinque capanne a forma di cupola si ergevano come audaci arnie, unite in un lungo corridoio con numerosi magazzini di viveri (...) e un sistema di cunicoli si snodava di locale in locale in modo che si poteva andare in visita senza uscire all’esterno». Lì abitavano 16 persone da molto tempo, tanto che «gli strati interni di neve si erano fusi formando incrostazioni. Lunghi ghiaccioli scintillanti pendevano accanto alle porte di ingresso e brillavano alla luce soffusa della lampada a grasso. Sembrava più una grotta a stalattiti che una capanna di neve, e avrebbe dato un’impressione di freddezza se tutti i tavolacci non fossero stati provvisti di spesse, morbide pelli di renna che irradiavano tepore».
Durante quella prima visita Aua aveva raccontato a Rasmussen della dominatrice degli animali marini. Il più temuto degli spiriti era infatti una ragazza malmaritata che il padre cercò di salvare ma poi sacrificò quando il marito, che era in realtà una procellaria, li raggiunse scagliandogli addosso una tempesta. Il padre la gettò fuori bordo e le tagliò le falangi nel momento in cui cercò di issarsi sulla barca. Dalle sue dita nacquero gli abitanti del mare e lei, seduta sul fondale, da allora regna su di loro, custodendo le prede con troppa parsimonia mentre il padre, suicida per il rimorso, le siede accanto punendo tutte le anime umane che hanno peccato e devono purificarsi prima di raggiungere il “paese dei morti”. Non c’è l’inferno infatti nella religione degli inuit. Quando le persone muoiono «alcuni vanno in cielo e diventano ivdlormiut,“il popolo del giorno”. Il loro paese è nella direzione dell’alba. Gli altri vanno sotto il mare, dove c’è un istmo sottile che ha il mare da entrambi i lati e vengono chiamati qimiujarmiut, “il popolo dell’istmo sottile”. Si sta bene in tutti e due i posti e c’è sempre abbondanza di cibo».
Mentre Aua parlava Rasmussen prendeva nota: erano vent’anni che raccoglieva informazioni sui popoli dell’Artico partecipando a missioni in Islanda, Lapponia e Groenlandia. Nel 1912 aveva avviato una serie di spedizioni chiamate Thule: oltre a studiare la natura, l’archeologia e a fare rilievi cartografici voleva capire le analogie tra le culture inuit della Groenlandia e del Canada, separate da una migrazione avvenuta circa 800 anni prima. Pubblicò, fra l’altro, Miti e leggende della Groenlandia (1921-1925) e Dalla Groenlandia al Pacifico, 1925-1926, un resoconto di oltre mille pagine dell’impresa che lo portò dalla terra natia ad attraversare tutto il Nord del Canada. Da qui Bruno Berni per Adelphi ha tratto Aua: selezione di 150 pagine che ruotano attorno all’incontro con l’omonimo sciamano e ai misteri iniziatici dei popoli dell’estremo Nord. Misteri che il danese osservava con distacco e lucidità - sorprendendosi della credulità delle persone e di come fosse possibile che uno sciamano ingannasse consapevolmente gli altri e allo stesso tempo non smettesse di credere in sé stesso, nelle proprie facoltà di veggente, nella propria religione - ma che, non senza paternalismo, cercava anche di non ridicolizzare: le «semplici preghiere pagane, sussurrate al vento da un punto della neve in cui nessun piede aveva lasciato la sua orma, per l’eschimese erano sacre parole che in qualche modo misterioso recavano aiuto(...). Chi non vede la devozione e la bellezza in esse non capisce cosa significhi sentirsi piccoli di fronte a una natura travolgente».
Aua non è però un trattato sullo sciamanesimo, ma una raccolta di appunti da leggersi come libro di viaggio, ricca com’è di suggestioni ed avventure: dalle splendide descrizioni delle cacce al tricheco, ai racconti di quando il ghiaccio sotto l’igloo si squarciò e le onde nere minacciavano di circondarli trascinandoli alla deriva. Un libro di viaggio che è anche un viaggio nel tempo, in un mondo che stava per scomparire. Quando Rasmussen tornò la seconda volta, infatti, sull’accampamento di Aua sventolavano piccole bandiere bianche, segno che si erano convertiti al cristianesimo, e i cani portavano il crocefisso. Uno strano cristianesimo: una dottrina dell’amore che finalmente non conosceva tabu, propagandata da un carismatico e tubercolotico assassino di un bianco. Aua fu più disposto a rivelare i suoi segreti ora che non temeva gli spiriti, e Rasmussen li trascrisse alacremente, consapevole di essere testimone degli ultimi bagliori di una cultura millenaria sul punto di essere spazzata via dalla nuova religione, dal commercio, dalle armi e dalle malattie.
Aua
Knud Rasmussen
a cura di B. Berni, Adelphi, pagg.192, €18
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