Cultura

Un Rinascimento da melodramma

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Storia

Un Rinascimento da melodramma

Una scena dell’opera «Beatrix Cenci» musicata da l maestro argentino Alberto Ginastera (1916-1983)  allestita al Teatro Cólon di  Buenos Aires nel  2016
Una scena dell’opera «Beatrix Cenci» musicata da l maestro argentino Alberto Ginastera (1916-1983) allestita al Teatro Cólon di Buenos Aires nel 2016

C’è un delizioso film, Camera con vista, che James Ivory ha tratto dal romanzo di Forster. Esprime molto bene, fra l’altro, il complesso rapporto, di fascinazione e di paura, che lega l’Inghilterra all’Italia, qui presente nella sua città esemplare, Firenze, con le sue opere d’arte e le sue seducenti colline. Il film ci può introdurre in una questione di grande rilievo e di carattere più generale: come viene visto, riscritto, reinterpretato il Rinascimento italiano in Europa nell’Ottocento? Si è posta questa domanda Alina Payne, storica dell’architettura e direttrice di Villa I Tatti, il centro di studi sul Rinascimento dell’Università di Harvard. Nel giugno 2013 abbiamo organizzato insieme il convegno su questo tema, che si è svolto fra Pisa, la Scuola Normale, e appunto Villa I Tatti. Ne escono ora gli atti, pubblicati da Officina Libraria e distribuiti da Harvard University Press. È un volume molto elegante, riccamente illustrato, che raccoglie saggi di studiosi di età e di paesi diversi e di diverse discipline; il libro inaugura una nuova collana, I Tatti Research Series, e insieme propone una nuova immagine, molto ricca e variegata, della presenza della cultura rinascimentale italiana nella moderna Europa.

Per quanto mi riguarda, ho voluto mostrare come l’immagine a tutto tondo del Rinascimento - un’età solare e armoniosa - non solo è stata decostruita ormai da tempo dalla critica moderna, ma già nell’800 era molto più complessa, percorsa da forti tensioni, compenetrata di elementi fortemente negativi. Ho scelto come terreno di analisi opere piuttosto laterali: non saggi critici, e neanche storie della letteratura e delle arti, ma alcuni romanzi, di non grande qualità letteraria, che ebbero ai loro tempi un certo successo. Questo permette di osservare da vicino il formarsi di una mentalità media, il diffondersi di alcuni stereotipi, in cui la ricostruzione storica si intreccia fortemente con la proiezione, nel Rinascimento, di miti, desideri, passioni contemporanei, spesso ispirati alle lotte politiche del Risorgimento. In particolare ho scelto alcuni romanzi che si intitolano a figure femminili, per vedere come sono rappresentate, quali desideri lo sguardo maschile proietta su di loro, come intorno ad esse si coaguli appunto questo intreccio di interpretazione del passato e di proiezione del presente.

Luisa Strozzi: storia del secolo XVI, è pubblicato nel 1832 da Giovanni Rosini, professore all’Università di Pisa, che ha una vasta rete di relazioni; nel suo soggiorno pisano, Leopardi diventa suo amico, tanto che sollecita l’invio del nostro romanzo e il 24 maggio 1831 gli scrive «voi avete un’immensa corrispondenza, avete conosciuto e conoscete quasi tutti gli uomini più famosi del nostro tempo. Di più siete onnipotente in Pisa». Non è impresa facile, per noi oggi, affrontare le centinaia di pagine della Luisa Strozzi. Si avverte subito che è il romanzo di un professore, il quale vuole commuoverci e indignare, ma anche esibire la sua straordinaria cultura, sia in campo letterario che in quello artistico. Il nostro romanzo è ambientato a Firenze, e prende le mosse dalla presa del potere da parte di Alessandro de’ Medici, sensuale, violento, crudele, tirannico, un «annoiato signore» che non conosce limiti. Il suo arrivo segna la fine delle libertà repubblicane e nello stesso tempo condanna alla infelicità i due giovani innamorati, Luisa Strozzi e Francesco Nasi. Entrambi infatti sono votati alla rinuncia e al sacrificio: Francesco promette al padre morente, seguace del Savonarola e punto di riferimento del partito popolare, di non sposare Luisa, la quale viene da una famiglia che è destinata a diventare o complice del tiranno o sua vittima; Luisa accetta di sposare il marito, Luigi Capponi, che la famiglia ha scelto per lei, un uomo gentile, ma mediocre e incolore, incapace di capire quel che succede intorno a lui; i due, Luisa e Francesco, continueranno ad amarsi, castamente, fino alla fine. Luisa morirà, avvelenata forse dal suo stesso fratello, che, dopo aver scelto di stare all’opposizione del duca, si deve allontanare da Firenze, per cui non è più in grado di proteggerla dalle sue turpi voglie. Il quadro di Firenze e della Toscana che ci viene delineato è un quadro fosco, caratterizzato da intrighi, violenze, veleni, ma nello stesso tempo è il quadro di un tempo straordinario, nel bene e nel male, perché la tirannia coincide con una magnifica stagione artistica. L’intento dichiarato è quello di mettere in risalto il volto oscuro del passato per fare meglio apprezzare il presente. Rosini coglie l’occasione per riempire le sue pagine di nomi importanti: Machiavelli viene rievocato più volte, mentre incontriamo Guicciardini, Cellini, Pontormo, Vasari e Michelangelo. L’autore è inesorabile nel ricordarci che è un esperto d’arte: non si risparmia un lungo excursus su Pisa in occasione del viaggio del duca in quella città; mette spesso in bocca ai suoi personaggi discussioni su artisti e opere e li accompagna in varie passeggiate per le vie e le piazze di Firenze che trasformano il romanzo in una specie di Baedeker. Amori e vita artistica si intrecciano indissolubilmente: basti ricordare che i due giovani si rivelano con gli sguardi il loro amore mentre ascoltano Michelangelo che legge i versi di Dante su Paolo e Francesca. Luisa inoltre prende lezioni di disegno da Michelangelo, che, in quanto «amicissimo» di Francesco, ha per lei «una specie di affezione paterna». Siamo certo colpiti dalle frequentazioni straordinarie di Luisa, ma in sostanza il suo personaggio non ci riserba alcuna sorpresa: è una gentildonna fiorentina che incarna lo stereotipo femminile della perfezione, quale lo può vagheggiare un lettore ottocentesco: è bellissima, angelica, pura e casta, pronta al sacrificio. È fedele al suo amore, ma anche custode intransigente dei valori del matrimonio. Non appena Luigi è diventato suo fidanzato, «premendo l’interna angoscia, lo riguardò fino da quel momento come l’assoluto suo signore»; a sua volta Francesco teme «che l’illibata onestà della vergine potesse macchiarsi anco di uno sguardo». A far risaltare ancora di più la perfezione di Luisa stanno le nobildonne pronte ad assecondare le voglie del duca, come Ginevra Salviati che la invita nel suo palazzo e la fa trovare sola con il duca; ma Luisa gli getta contro una sedia e minaccia di buttarsi giù dalla finestra. L’episodio diventa famoso, esemplare della virtù della nuova Lucrezia: lo celebra in una tela Alessandro Focosi e nel 1864 a Pontassieve Ferdinando Folchi lo include nel ciclo degli affreschi dedicati alle gesta di eroine toscane. Luisa permette dunque al lettore ottocentesco di contemplare insieme la fedeltà di una sposa e la passione di una innamorata infelice; le ragioni dell’amore romantico e quelle dei valori familiari sono così contemperate e soddisfano i diversi sistemi d’attesa dei lettori.

A tinte ben più forti si presenta il Rinascimento, con le sue figure femminili, nei romanzi del livornese Francesco Domenico Guerrazzi. Partecipe attivo del Risorgimento democratico, Guerrazzi proietta apertamente nelle vicende narrate le due idee, le sue speranze, e soprattutto le sue delusioni. Nei tre romanzi dedicati a eroine rinascimentali–Veronica Cybo, del 1832, Isabella Orsini, del 1844, Beatrice Cenci del 1853 – il tono è sempre esasperato, eccessivo, con un crescendo di crudeltà e di orrori che raggiunge il suo culmine con la Beatrice Cenci. Il suo è un Rinascimento fortemente segnato dalla tirannia e da mostruose crudeltà, un Rinascimento claustrofobico, a suo agio più nelle celle e nei sotterranei che nelle piazze e nei grandi palazzi, un Rinascimento affascinato dalla grandezza del male e dal titanismo. Le figure femminili appaiono in questo contesto in balia delle passioni e della crudeltà proprie o altrui: Veronica Cybo è la moglie offesa dall’adulterio del marito, Jacopo Salviati, che si vendica uccidendo di propria mano Caterina, la sua giovane amante, e facendogli trovare la testa di lei nel canestro con le camicie di cui si deve vestire; Isabella Orsini è l’adultera infelice e tormentata, che andrà incontro alla morte che la famiglia d’origine, i Medici, ha decretato per lei; Beatrice Cenci è la vittima predestinata di un padre crudele, che la insidia, e poi del tribunale ecclesiastico, che l’accusa ingiustamente di parricidio, la tormenta e la uccide. Innocenti o colpevoli, vittime o carnefici, le nostre eroine vengono così accomunate da un destino di morte.

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